In un contesto internazionale dove il cosiddetto postumano è diventato rapidamente uno dei nodi di giornate di studio o di numeri monografici di riviste di vario orientamento, anche in Italia un’attenzione crescente al tema indica la percezione della sua rilevanza. Fatta la tara dell’effetto novità, le questioni in gioco sono davvero cruciali e rischiano di diventarlo sempre più.



In un recente convegno svoltosi a Macerata alcuni snodi sono emersi con chiarezza: anzitutto, e quasi preliminarmente, che “postumano” si può intendere in molti modi, anche al di là della sinonimia solo parziale con “transumano”. Ad esempio, la versione che ne ha fornito nella città marchigiana, in maniera brillante, Roberto Marchesini è assai differente da quella dominante nelle riflessioni angloamericane sul tema, le più caratterizzanti e note (Kurzweil, Bostrom); o da quella, di maggiore spessore filosofico, proposta da Peter Sloterdijk. Almeno una ragione ne è evidente: proprio in quanto il postumano si coniuga al futuro non è facile predirne le coordinate esatte, anche perché spesso l’evoluzione che viene preconizzata indica soprattutto le vocazioni ideologiche degli interpreti – o la loro attitudine rispetto precisamente al futuro. Ad ogni modo è noto, almeno in generale, di cosa si tratta: saremmo alla vigilia di una trasformazione accelerata che grazie alla tecnologia modificherebbe le fondamentali e tradizionali coordinate antropologiche, dalle dotazioni sensoriali e intellettuali all’incombenza della morte, per citare i fattori più ovvi; trasformazione che, d’altra parte, non fa altro che riprendere il moto perpetuo dell’evoluzione benché a sfondo tecnologico anziché biologico.



E tuttavia sorge una serie precisa di dubbi, che in maniera sintetica possono essere ricondotti ad alcuni sommi capi. Principalmente: se è da prendere sul serio il prefisso post-, nel postumano si tratterebbe della genesi, grazie alla tecnologia, di un’entità ontologicamente nuova rispetto al nostro presente. E dunque, questa genesi sarebbe letteralmente prodotta da parte nostra. Si tratta di una novità incalcolabile: prendere in mano l’evoluzione e progettarne gli esiti. Ciò implica un’asimmetria nuova del rapporto tra progettisti e progettati, finora appartenenti ad un genere umano comune affermato dalla tradizione umanistica ma che rischierebbe, al contrario, di subire processi di differenziazione e divaricazione. A ben vedere tale asimmetria resterebbe inquietante di per sé, al di là degli stessi contenuti, per così dire, dei progetti di trasformazione.



La lucidità degli interventi dei relatori principali, Stefano Rodotà e Adriano Bompiani, pur da posizioni nettamente distinte metteva in guardia proprio da tali esiti. Nel caso di Rodotà, almeno in quest’occasione a partire da toni di tipo habermasiano che sottolineano precisamente la rottura dell’eguaglianza tra esseri umani, a cui replicare riaffermandone l’intangibile dignità intesa come un primum cruciale, ma senza che sia possibile fondarne la ragione sostanziale. Nel caso di Bompiani, con saggi e oculati richiami a non lasciarsi sedurre dalle tentazioni del possibile, dal perfettismo di ipotesi di rigenerazione dell’umano che producono generalmente disastri.

In realtà, a più riprese è affiorato il sospetto che parlare del postumano significhi in realtà ancora, e necessariamente, parlare dell’uomo. Angosce e aspettative, forse eccessive (ricordo il pamphlet di Paolo Rossi, Speranze, ove anche il postumano veniva coinvolto per stigmatizzare tanto l’attesa utopistica quanto il disfattismo tecnofobo), derivano dal fatto che cogliamo nel postumano un modo indiretto e distorto per definire chi siamo. Insistere, come hanno fatto Marchesini e Ubaldo Fadini, sul rapporto che ci unisce al mondo animale e sulla metamorfosi evolutiva come perpetua alterazione e ibridazione, forse sottovaluta che nell’animale tendiamo a riconoscere ancora figure o facoltà dell’umano; e che la metamorfosi, a ben vedere, non può essere un processo della pura alterità (pena essere una fine assoluta anziché, più correttamente, una trasformazione). Vale sempre la pena di osservare che anche il diffuso slogan del rifiuto dell’antropocentrismo viene asserito pur sempre da uomini.

E allora l’ipotesi del postumano come travestimento narcisistico dell’uomo, avanzata esplicitamente in una lucida relazione da Luca Grion, sembra poter essere una lettura appropriata e disincantata del fenomeno. Il postumano rappresenterebbe certo una tensione verso l’elevamento e perfino l’infinito, ma una tensione irrisolta, che intende l’infinito solo, se ci si passa la metafora, come una sorta di sfilacciamento del finito; e l’oltreuomo solo come un uomo potenziato (enhanced) in un senso assolutamente orizzontale.

Certamente la discussione è appena agli inizi, e di fronte allo stravolgimento dell’umano che avrà luogo a livello di biotecnologia e biopolitica, non credo che l’argomento sia destinato a rapida obsolescenza come accade alle mere mode culturali. C’è da aspettarsi un’attenzione crescente. Non a caso coloro che a Macerata hanno organizzato il convegno e che promettono di proseguire nel loro interesse (Francesco Totaro, Benedetta Giovanola) hanno focalizzato il tema a partire da un’attenzione preesistente al pensiero di Nietzsche. Nietzsche è precisamente l’autore chiave che soggiace alla discussione presente, e ciò indica quanto il tema non vada sottovalutato nel suo spessore filosofico e nella sua urgenza antropologica.