Il 26 novembre 2009 veniva a mancare Victor Zaslavsky, studioso russo dell’Unione Sovietica da tempo emigrato in Italia. Noto per i suoi studi sul sistema sovietico e il partito comunista italiano, era stato di recente insignito del premio “Hannah Arendt” per il suo lavoro sul massacro di Katyn. In sua memoria, esce il 1 dicembre il volume Società totalitarie e transizione alla democrazia, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok (Il Mulino, 37 euro). Il volume raccoglie contributi di alcuni dei più importanti studiosi americani, europei e russi sul tema del totalitarismo e del difficile passaggio alla democrazia dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Anticipiamo per gentile concessione dell’Editore un brano del saggio di Vladimir Pecatnov dedicato a Stalin uomo di stato. Pecatnov è professore di Studi europei e americani all’Istituto statale di relazioni internazionali di Mosca.



«Lo stato sono io». Questo celebre aforisma, attribuito a Luigi XIV, avrebbe potuto benissimo pronunciarlo Stalin. Egli, infatti, non fu l’ennesimo interprete dello statalismo russo, ma il fondatore di un nuovo tipo di stato, uno stato che la storia non aveva ancora conosciuto. Se Lenin era stato il fondatore del partito bolscevico e la guida della Rivoluzione d’Ottobre, e aveva lasciato dietro di sé un disegno generale dello stato sovietico ancora molto confuso, Stalin completò questo disegno e lo mise in atto. Un grande teorico e l’uomo che aveva attuato l’edificazione del socialismo: così Stalin considerava se stesso e così voleva entrare nella coscienza dei suoi cittadini e del resto del mondo. «Nessuno al mondo ha guidato masse così grandi» dettò ai dirigenti dell’Agitprop durante la seduta del 23 ottobre 1946, elencando i punti principali su cui costruire la Biografia del compagno Stalin: «La teoria dei fattori costanti. La teoria della vittoria del comunismo in un solo paese. La teoria della collettivizzazione e dell’industrializzazione. La teoria dello stato».



L’identificazione di sé con lo stato era rafforzata dal fatto che per Stalin l’Unione Sovietica non era solo una grande creatura, ma anche una specie di gigante prosecuzione di se stesso. Forse nessuno dei grandi stati del mondo è stato plasmato fino a questo punto a immagine e somiglianza di un solo uomo: un uomo di una diffidenza e di una crudeltà eccezionali, ma dotato di altrettanto rare capacità che gli consentivano di gestire in prima persona un paese immenso, dalla redazione degli articoli di giornale e delle opere letterarie fino al controllo costante sull’attuazione di complessi programmi tecnici e militari.



Stalin creò una piramide di comando nella quale era lui il solo a decidere sulle questioni più importanti e a lui solo confluiva tutta la sterminata mole di informazioni sulla situazione interna ed esterna del paese; non di rado i sottoposti, per paura di assumersi delle responsabilità, gli sottoponevano delle vere e proprie inezie, che venivano così abitualmente “scaricate” dal basso verso l’alto, fino “alla sommità” della scala gerarchica.

Nell’ottobre del 1950, ad esempio, il ministero degli Esteri riferì a Stalin di una zuffa tra uno spazzino di Mosca e un alticcio collaboratore dell’ambasciata americana e del tentativo di un altro diplomatico americano di far passare alla frontiera 130 kg di patate, la cui importazione in URSS era proibita. Sebbene questo sistema di comando comportasse per il dittatore un sovraccarico di informazioni, Stalin seguiva tutto e tutti, ben sapendo che senza il suo “occhio onniveggente”, senza continui scossoni e punizioni esemplari, la verticale del potere da lui costruita si sarebbe inevitabilmente atrofizzata. Era necessario tenere sotto stretto controllo il lavoro di centinaia e migliaia di funzionari e organizzazioni sovietiche, scoprendo di continuo le “falle” di ogni regione.

Vediamo alcuni esempi particolari. Nel settembre del 1948, durante le sue vacanze al sud, Stalin inviò al Politbjuro l’ordine di far ristampare su tutti i giornali la lettera dei parenti di Lev Tolstoj «contro le spie di Tolstoj in America». L’attività antisovietica della figlia del grande scrittore Aleksandra L’vovna Tolstaja, direttrice del «Fondo Tolstoj» in America, suscitava infatti forte irritazione al Cremlino: l’MGB aveva così ispirato questa lettera, pubblicata inizialmente sulla «Literaturnaja gazeta». Nel telegramma Stalin, che non si fidava del lavoro dei giornalisti, diede istruzioni anche su come presentare l’articolo: «Bisogna mettere un titolo d’apertura tipo “Protesta dei membri della famiglia di Lev Nikolaevič Tolstoj contro l’attività di spionaggio del traditore della patria A. Tolstaja”. La “Literaturnaja gazeta” – aggiunse – non ha mai usato i titoli d’apertura perché lì ci lavorano giornalisti incapaci e senza alcuna esperienza». Il giorno dopo tutti i giornali più importanti uscirono con quel titolo.

 Bisogna riconoscere che Stalin era dotato di una capacità di resistenza al lavoro fuori dal comune, di una preparazione eccellente in molti campi, di una memoria straordinaria e di un occhio finissimo, che gli consentivano di cogliere con estrema precisione il punto debole delle azioni dei suoi sottoposti, tutti notevolmente inferiori al suo calibro (a quel tempo egli si era già sbarazzato di tutti quelli che avrebbero potuto adombrare la sua figura). Per di più, le “bacchettate” di Stalin avevano spesso un’impronta palesemente sadica.

Come esempio di una ordinaria lavata di capo può valere l’ammonizione ad Anastas Mikojan che, nel corso delle complesse trattative sull’appianamento della legge Affitti e prestiti (Lend-Lease) alla fine del 1946, aveva preparato una bozza di risposta agli americani che Stalin considerò troppo arruffata. «Penso che la bozza del decreto di Mikojan che ho ricevuto il 15 dicembre sia contradditoria e del tutto falsa», scrisse al Politbjuro durante la sua consueta vacanza nel Caucaso. Da un lato, continuava Stalin, si dice che gli Stati Uniti hanno infranto i propri obblighi contrattuali, dall’altro queste violazioni vengono viste di buon grado «perché possono essere fatte passare come concessioni da parte nostra», e infine «si afferma che queste concessioni non vanno interpretate come un’approvazione della violazione dei nostri diritti contrattuali.

È una bozza puramente menscevica. Nessun governo che si rispetti potrebbe approvare un decreto così falso. Delle due, una: o accettare la richiesta degli americani, senza discutere della violazione dei nostri diritti, e mettere sul tavolo 800 mila dollari; oppure, se vogliamo discutere della violazione dei nostri diritti, chiedere agli americani l’adempimento degli obblighi contrattuali senza concessione alcuna da parte nostra». Il Politbjuro condannò seduta stante i «gravi errori» di Mikojan e alla fine accolse la prima delle soluzioni proposte da Stalin.

Se in questo caso Mikojan si beccò un rimpovero meritato, ben più beffardo appare invece il rimprovero che in quegli stessi giorni Stalin mosse al suo vice Vjačeslav Molotov. Obbedendo a un ordine dello stesso Stalin, Molotov aveva accettato di essere eletto membro onorario dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, nomina che era stata caldeggiata con insistenza dall’Accademia in quanto egli era la seconda carica dello Stato. Molotov, che si trovava a New York per la conferenza del Consiglio dei Ministri degli Esteri, aveva quindi preparato una bozza del telegramma di servizio indirizzato al Presidium dell’Accademia con il quale esprimeva il suo consenso e insieme tributava l’immancabile lode al «corifeo di tutte le scienze», e l’aveva mandata, per ogni evenienza, all’approvazione del corifeo stesso. Ricevette questa risposta: «Mi ha molto colpito il tuo telegramma… Veramente ti manda così in visibilio diventare membro onorario dell’Accademia? Che significa la firma “Vostro Molotov”? Non pensavo che potessi emozionarti così tanto per una questione così secondaria. Credo che come alto rappresentante dello stato avresti dovuto avere maggiore considerazione del tuo valore».

Era quello il periodo in cui Molotov aveva felicemente portato a termine importanti negoziati per stringere trattative di pace con gli alleati europei della Germania, e i suoi discorsi e le sue fotografie campeggiavano su tutti i giornali sovietici. Proprio per questo, evidentemente, Stalin aveva deciso di apostrofare il suo vice, baciato dal successo, mostrando ancora una volta chi fosse il padrone di casa. Nella risposta era d’obbligo esprimere la propria gratitudine e pentirsi.«Riconosco di aver commesso una leggerezza», fece eco Molotov avvilito, «diventare membro onorario non mi manda affatto in visibilio. Mi sarei sentito meglio se non ci fosse neanche stata questa elezione. Grazie per il telegramma».