È un caso che all’indomani del vertice Merkel-Monti-Sarkozy, sul Corriere della Sera Bernard-Henri Lévy abbia scritto dell’«apocalisse» europea e «dei suoi cavalieri divenuti dementi»? Per l’intellettuale francese la crisi dell’Europa non è economica. Ad essere sotto scacco è «la sua cultura, il suo genio, la sua anima». «La sua grammatica comune e nascosta». Se vogliamo capire quello che sta accadendo, dice Lévy, «più che Keynes o Friedman occorre rileggere Gibbon, Humbolt anche Polibio». Insomma, i teorici della caduta degli imperi, quelli di Roma e di Atene, che hanno dato forma alla civiltà europea. Per questo la soluzione della crisi – continua Lévy – «non sarà né finanziaria né economica ma – di nuovo, e a scelta – spirituale, morale o politica».
Come non essere d’accordo con il maître à penser d’Oltralpe? Qualcosa, però, non torna. «Ritrovare Roma. Restaurare Atene. È questo l’unico programma» conclude Lévy. Viene però il dubbio che dall’analisi del neoilluminista Lévy sia scomparso qualche ingrediente fondamentale. IlSussidiario.net ne ha parlato con Giulio Sapelli, economista e anch’egli interprete culturale della tempesta europea. «I paradigmi ateniese e romano sono fuori luogo» spiega Sapelli. «Quelli di Atene e di Roma sono imperi caduti per espansione, invece ciò che vediamo adesso è che l’Europa crolla proprio perché non è mai riuscita a diventare grande».
Levy dice che sotto la crisi economica c’è in realtà «un radicale désêtre», un «disfacimento dell’essere». Ammette i tecnocrati, ma dice che non saranno loro a salvare l’Europa.
Sul tema della dimensione culturale sicuramente va seguito, perché l’incapacità egemonica dell’Europa è di matrice culturale. Pensiamo alla Gran Bretagna e alla capacità egemonica a livello mondiale che è riuscita ad avere una piccola isola. Quello è stato davvero un impero.
L’Europa di Lévy è anche quella in cui l’«anatema» ha ceduto il posto alla ragione, «lo scisma della fede e dei corpi a una coscienza diventata nazione transnazionale». Non le sembra una analisi che dimentica, volente o no, la fede, anche cristiana, dei popoli?
Certo. Dimentica che l’aggancio ai valori morali che lui predica non può che essere al significato culturale laico cristiano dell’Europa, perché la crisi cui assistiamo oggi è una crisi di moralità e di speranza. Speranza alla quale mi pare che tutto l’orizzonte del pensiero laico, nei suoi epigoni più maturi, sia sensibile. Basti pensare ad Habermas, che ricerca una ragione morale dell’Europa ed è per riproporre i diritti umani di matrice illuministica. Ma Benedetto XVI sa bene che questa operazione, dopo Auschwitz e i gulag, non può che avvenire attraverso una mediazione con l’obbligazione a Dio. Quello che sfugge completamente, mi pare, a Bernard-Henri Lévy.
E la «coscienza transnazionale» di cui Lévy parla nel suo articolo?
Dov’è questa coscienza? In realtà assistiamo ad una guerra, condotta con le armi dell’economia – e meno male che non è condotta con altri mezzi – ma è una guerra in cui di culturale non c’è assolutamente nulla. Perché è così difficile convincere i tedeschi che bisogna agire da europei? Perché né i tedeschi, né i francesi né i rispettivi governi esprimono un progetto culturale. Questo è il dramma dell’Europa. Che agli ideali di Spinelli, Colorni, De Gasperi, Schuman della costruzione degli stati uniti d’Europa, basati sull’idea socialista e su quella cattolico-popolare democristiana, ha ormai del tutto rinunciato.
E secondo lei chi o che cosa ha determinato la crisi di quegli ideali?
In fondo sia il manifesto di Ventotene sia le proposte di unità europea auspicate da Schuman, Adenauer, De Gasperi, venivano dalla generazione di uomini formatisi prima della seconda guerra mondiale. Dopo l’ultima guerra il meccanismo si è rotto perché l’Europa non ha saputo creare nulla, anche dal punto di vista dei cattolicesimi nazionali. Noi in fondo viviamo della luce riflessa del cattolicesimo francese, e in parte della rifioritura del cattolicesimo tedesco del secondo dopoguerra, che però non ha saputo proporsi in modo unitario; basti pensare alla frattura tra Küng e Ratzinger. Non qui parlo di dogma, ma di humus culturale comune.
Nel dominio dei tecnici – anche richiamati da Lévy: Monti a «Roma», Papademos ad «Atene» – vede una crisi della politica?
Vi vedo piuttosto il realizzarsi di quella che io chiamo la poliarchia: non esiste né la pura democrazia né il puro dominio dei tecnocrati, ma l’instaurarsi di un mix di rappresentanza territoriale e di rappresentanza di interessi funzionali impersonati da tecnocrati. Premessa: l’espressione «poteri forti» andrebbe abolita.
È davvero convinto che non esistano poteri forti?
Non ho detto questo. Dico solo che è stupido accusare di tutto i poteri forti, come è stupido pensare che certi «poteri» non abbiano alcuna responsabilità. Parlerei di poteri situazionali di fatto, e di rappresentanze funzionali non democratiche ma autorevoli per la loro competenza tecnica.
Ma allora che cosa sta accadendo?
Una tregua. Un periodo imposto dalla pressione dell’oligopolio finanziario mondiale e dalle istituzioni finanziarie internazionali, comprese quelle europee, di congelamento della rappresentanza politica. Mi va anche bene: per l’Italia è positivo, perché mi sembra che consenta, finalmente, un raffreddamento degli animi.
Non che la politica ultimamente abbia dato grande prova di sé, a destra come a sinistra.
Non ha dato grande prova di sé perché di fatto era già morta: al suo interno si era già consunta, con la trasformazione dei politici in cacicchi e la fine delle comunità di destino. Era già diventata politica di piccoli leader affaristici, sia imprenditori dell’economia sia imprenditori della politica.
Vede risposte positive in atto?
No, sono quasi assenti. Una la vedo semmai nel fatto che la povera gente normale, cioè noi, mantiene un certo sangue freddo, non perde la speranza. Nel caso degli italiani, è sempre difficile capire se sia cinismo o saggezza. Però, visti i guasti che continuamente provengono dalla società nichilistico-pornografica dei mass-media, mi sembra che in fondo la saggezza popolare sia ancora elevata. La gente guarda con disincantato realismo ciò che accade, e va avanti. Anche se non sa che cosa è di Atene e che cosa è di Roma.
(Federico Ferraù)