Gentile on. Bersani, arriveremo poi a conclusioni diverse, ma al convegno di Scienza e Vita (18 novembre, Roma) ha messo il dito sulla piaga. Ha detto che negli ultimi anni c’è stata una rivoluzione culturale: la gente che un tempo aveva paura della morte improvvisa ora ha paura della morte “senza dignità” (e spesso se la augura, la morte improvvisa).
Sarebbe interessante trarne le stesse conclusioni, ma questo richiede dialogo e tempo. La mia conclusione è che nulla può togliere all’uomo la sua dignità, dunque va combattuto il dolore, ma non si può pensare che il dolore renda la vita indegna. La dignità è intrinseca; un fiore può essere sbattuto, calpestato, strappato, ma resterà sempre un fiore.
Invece per alcuni la dignità consiste nel “poter fare una certa cosa”, e nel nostro immaginario finisce che l’idea che abbiamo di dignità coincide con le nostre passioni (o le nostre fobie). Tutte cose buone, per le quali impegnarsi, spesso; ma un po’ poco per pensare che “lì” risieda la nostra dignità. E questo ha riflessi sociali: come si pensa che certe malattie tolgano la dignità, così si pensa che certi lavori non siano “degni” (e i cittadini dei Paesi ricchi non li fanno più perché si sentono sminuiti). Non è vero. Perché non c’è nulla che tolga all’uomo/donna la dignità di uomo/donna, neanche il lavoro più faticoso o la malattia mentale. Perché la dignità non dipende dallo stato in cui siamo: anche in un lager si conserva la dignità, vedi Primo Levi (questo però non toglie che il lager vada cancellato).
Dunque la lotta vera è quella contro il dolore e la solitudine e anche contro le cure inutili; non sul credere che una certa vita è “indegna”, e che l’unica soluzione è toglierla o togliersela. E perfida è la società che lascia le persone sole, obbligandole a scegliere tra una vita disegnata come “indegna” e scelte letali (aborto, eutanasia, droga): che razza di scelta “libera” è?
Per questo non concordo con quanto scriveva Stefano Semplici sull’Unità (21 novembre): “La Chiesa non raggiungerà l’obiettivo (…) fino a quando insisterà che la crisi morale del nostro tempo dipende da un difetto di conoscenza”. Invece, credo, il punto è qui: ri-conoscere. Ecco un’altra rivoluzione: un tempo si accusava la Chiesa di essere tesa solo al soprannaturale, al primato della coscienza sulla conoscenza; non era proprio così, ma poteva sembrarlo; oggi di essere tesa solo al naturale, alla conoscenza, ed in parte è vero, perché la Chiesa invita a riconoscere il reale, mentre sono altri che mettono la “coscienza” (cioè il soggettivismo) al centro dell’etica.
Ma cos’è la conoscenza di cui parliamo? La conoscenza è dare alle cose il loro nome. E’ riconoscere che l’uomo non diventa mai “meno degno”, e che proprio per questo deve essere sempre e comunque tutelato, anche dalle sue paure. E riconoscere che non si può defraudare il salario, che non si può uccidere, che non si può violentare; e riconoscere pari dignità a qualunque essere umano, indipendentemente dall’età, dalla razza o dalla malattia. Le sembrano cose su cui si può discutere? E’ essere certi che su alcuni temi non ci sono “due verità”, a seconda di chi parla: stuprare è sempre un male, frodare le tasse o rubare al povero è sempre una male, aggredire il bambino (nato o non nato che sia) è sempre un male; poi ci saranno attenuanti, ma il male è certo.
Il problema è che oggi prevale l’etica dell’auto-nomia, cioè che se TU decidi che una cosa non è male, diventa BENE, a condizione di avere la FORZA per farsi valere. E certa bioetica utilitarista (“io valgo solo se so farmi valere, se sono legge a me stesso”) toglie la qualifica di “persona” a coloro che avrebbero “perso dignità” (feti, disabili mentali, pazienti in coma prolungato).
Insomma, on. Bersani, oggi siamo in una società spaventata e solitaria in cui si cerca di pararsi e ripararsi da tutto e da tutti, perfino dalla morte, perfino dai nostri cari che ci guardano morire; e dal lavoro che genera poco potere spicciolo e spendibile socialmente (e questo accade non solo al manovale, ma anche tante volte ai manager). Magari pensando che una decisione presa nel chiuso della propria stanza, di fronte ad un foglio di dati sia garanzia di libera scelta e dignità. Ma – e immagino che su questo potremo dialogare – la vera dignità è un’altra cosa, e la solitudine, sommo ideale della società postmoderna, può farci scordare di averla.
Allora dobbiamo garantire che nessuno si senta mai abbandonato: empatia da parte di chi cura, accesso a cure psicologiche, ad un ambiente non deprimente, alla compagnia dei cari, provvedimenti che diano agevolazioni e addirittura mettano al di sopra degli altri le persone con disabilità e malattie gravi. Cioè ri-conoscere, leggere la realtà. Diamo queste poche ma forti garanzie a chi sta male. Poi, solo poi, si potrà domandare se la vita è degna; solo poi si può discutere sulle leggi.