Oggi, 4 novembre, è la giornata dedicata all’Unità nazionale e alle Forze armate. Nei 150 anni dell’unità d’Italia, ha assunto un particolare significato simbolico la traslazione del milite ignoto, 90 anni dopo il primo viaggio, da Aquileia a Roma. È probabile che molti giovani si chiedano il senso di questi gesti, che conoscono (nella migliore delle ipotesi) solo dai libri.
Il 4 novembre è anche giorno di discorsi pubblici. Capita così che chi si troverà ad ascoltarli, si annoi, o immagini cosa avrebbe voluto sentirsi dire, o detto lui stesso se fosse stato al posto di chi parla. Carlo Fedeli ha immaginato il suo.
Autorità Civili, Militari, Religiose, Signor Sindaco, Signori Assessori, Signori Presidenti delle Associazioni tutte, Signore e Signori, Ragazze e Ragazzi delle scuole,
viviamo ore, giorni, settimane decisamente difficili per il nostro Paese. Non solo la crisi economica e finanziaria internazionale, e l’affanno della diplomazia e dei governi per farvi fronte; non solo, appena al di là del Mediterraneo, il travaglio di popoli che tentano di uscire, non si sa ancora con quali esiti, da decenni di regimi autoritari; ma anche, in casa nostra, segnali sempre più evidenti e acuti di una difficoltà del vivere che tocca tutti.
La natura “matrigna”, direbbe Leopardi, che la settimana scorsa ha sparso distruzione e morte in luoghi tra i più belli e suggestivi della Penisola, sembra essersi incaricata per prima di tentar di riscuotere la nostra coscienza di italiani. E forse non è un caso che anche il Presidente della Repubblica, con un atto tanto lucido, quanto tempestivo, abbia preso ieri posizione, per invitare ancora una volta maggioranza e opposizione (lo aveva già fatto meno di tre mesi fa al Meeting di Rimini) ad agire con responsabilità e lungimiranza davanti alla crisi.
Forse anche la ricorrenza del quattro novembre – inizialmente dedicata a commemorare la vittoria nella Grande Guerra, poi diventata anche occasione per riflettere sull’unità nazionale – può offrire qualche stimolo a quel risveglio, se accostata in chiave propriamente educativa, più che solamente “celebrativa”.
Questo punto di osservazione è quello tipico di chi si occupa di storia e di teoria dell’educazione, e si può riassumere in questo interrogativo di fondo: che cosa dice la giornata di oggi, a chi si volge a guardare l’epilogo della prima guerra mondiale, il processo di costruzione dell’unità nazionale, il servizio delle Forze armate, dallo specifico punto di vista dell’educazione e della formazione?
Una prima risposta ci viene suggerita dal fatto che l’educazione avviene e si sviluppa come rapporto fra le generazioni – più precisamente, come cura che le generazioni adulte hanno per la crescita e la maturazione delle generazioni più giovani. Ora, perché ciò accada effettivamente, è necessario il concorso di molti fattori, tra cui il senso di responsabilità degli adulti, la disponibilità ad apprendere e a formarsi di ragazzi e giovani, l’esistenza di un patrimonio di conoscenze, valori e modi di vivere che valga la pena di essere trasmesso da una generazione all’altra. Credo non ci sia bisogno di sottolineare come ciascuno di questi aspetti meriterebbe un discorso e un approfondimento a sé. Ma fra di loro ce n’è uno, che a me sembra fra i più decisivi, se non “il più decisivo” di tutti, perché attraverso l’educazione si compia realmente ciò che significa l’espressione con cui talvolta annunciamo la nascita di un bimbo: “è venuto al mondo”.
Che cosa significa “venire al mondo”? Nell’accezione più immediata vuol dire: un nuovo essere umano, bimba o bimbo, è entrato a far parte della “comunità”, rappresentata innanzitutto dalla famiglia – nella sua forma più elementare, il papà e la mamma, oppure in una più articolata ed estesa, dove ci sono fratelli e sorelle, nonni, e via via altri parenti. Ma la “comunità” – a partire dalla famiglia, per venire poi a tutte le altre “formazioni sociali intermedie”, di cui parla la nostra Costituzione – non è fatta solo dalle “persone fisiche” che la compongono. E’ fatta anche di molti altri elementi: la lingua che le persone parlano, e che permette loro d’intendersi, di convivere e di agire insieme; uno spazio civilizzato, che permette di inserirsi costruttivamente nell’ambiente (l’abitazione, il vicinato, il quartiere, la scuola, i luoghi di aggregazione e del tempo libero, le leggi e gli ordinamenti, la “buona educazione”: ecco le “forme” più immediatamente quotidiane di tale spazio civilizzato); e ancora una “tradizione”, nella quale tutto ciò che le generazioni precedenti hanno costruito, scoperto e realizzato viene raccolto, ordinato e reso disponibile a chi si affaccia ora alla vita.
Potremmo andare avanti a lungo, ed enumerare molti altri fattori: alla fine, vedremmo che tutti vanno a confluire nella parola che esprime una delle configurazioni più alte e intense del fenomeno “comunità”: la parola “nazione”. Il fatto che, a volte, questa parola possa essere pronunciata con troppa facilità, o con intenti solo retorici o propagandistici, o peggio più o meno fuori luogo, non toglie che essa conservi un grande contenuto e valore, che è compito di ogni generazione adulta far percepire, conoscere e apprezzare alle generazioni più giovani. Un grande contenuto e valore, che credo poche definizioni hanno saputo esprimere così bene come il celebre verso di Alessandro Manzoni, dall’ode Marzo 1821, che tutti ricordiamo: una d’arme, di lingua, d’altare,/ di memoria, di sangue, di cor.
Riguarda proprio la realtà della “nazione” una delle urgenze e delle sollecitazioni più forti, sotto il profilo educativo, che la giornata di oggi prospetta a noi adulti. Se vogliamo, dal punto di vista materiale la risposta alla domanda “Che cosa lascio in eredità ?” è relativamente facile: una casa, un pezzo di terra, qualche bene mobile, nei casi più fortunati un certo patrimonio. Ma dal punto di vista che una volta si definiva, e che anche oggi, con qualche precauzione, si può definire “spirituale”: che cosa, della Grande guerra, e della nazione che essa contribuì a formare compiutamente, le generazioni oggi adulte lasciano in eredità ai bimbi, ai ragazzi, ai giovani?
Da allora sono passati più di novant’anni. Nel migliore dei casi, sopravvive ancora qualcuno che, all’epoca, era preadolescente o adolescente, e può ancora conservare, quindi, qualche ricordo; ma per la parte maggiore, la comunicazione di che cosa fu quel conflitto, con tutte le sue sofferenze, di che cosa rappresentò la vittoria, e di come attraverso quelle vicende maturò fra la popolazione la consapevolezza della comune appartenenza al “popolo” italiano, è affidata, ancora per poco, alla “generazione dei figli” dei combattenti. Poi sarà affidata, anzi a dire il vero lo è già, alla “generazione dei nipoti”; e quindi a quella dei “pronipoti”. E io mi chiedo, come storico dell’educazione: quale vivezza conservano oggi gli avvenimenti e le vite di quel triennio, gli atti di eroismo al fronte, le storie di ordinario sacrificio nelle comunità di paese o cittadine, le delicate corrispondenze di affetti fra i soldati e i loro cari? Attraverso quali volti, quali immagini, quali racconti e quali segni tale patrimonio può essere reso accessibile a chi è nell’età della crescita, perché il suo “venire al mondo” si compia in tutta la sua profondità, anche storica e culturale?
Comprenderete che, sotto questo profilo, l’educazione non consiste più solo nell’instaurazione di un rapporto positivo e comunicativo – tra parentesi: tutt’altro che facile… – tra le generazioni, ma anche nell’introduzione di ogni bambino, ragazzo e giovane alla realtà, in tutti i suoi aspetti e nel suo significato. Ora, il passato e la storia sono un aspetto della realtà che non si può trascurare, pena gravi conseguenze. Questa cosciente e deliberata introduzione alla realtà e al suo significato è compito proprio non dei giovani, quanto piuttosto della generazione adulta, che della consistenza e del senso delle cose dovrebbe aver già fatto esperienza in prima persona.
Molti fatti, però, anche di cronaca, di questi ultimi mesi e giorni, destano più di un dubbio circa l’effettiva, diciamo così, “credibilità”, in proposito, della generazione “adulta”. Cito, per fare solo tre esempi egualmente dolorosi, il difetto di onestà intellettuale, l’insistenza sugli scandali, l’abbondanza di pregiudizi ideologici e lo scarso senso del bene comune che infarciscono, da settimane, i discorsi dell’opinione pubblica e della classe politica sui problemi del paese. Come potrete convenire, queste – per usare un eufemismo – “cadute di stile” non predispongono certo le condizioni ideali per introdurre gli studenti, o più in generale le nuove generazioni alla conoscenza della nostra nazione (e quindi del processo di formazione dello Stato unitario), nonché all’esercizio dei diritti – e dei doveri – di cittadinanza.
Per contribuire a rialzare lo sguardo, vorrei perciò indicare un punto molto bisognoso, a mio giudizio, di urgente e attenta riconsiderazione. È un punto che deve oggi riconquistare contenuto e significato in un contesto nuovo – molto diverso da quello degli inizi del Regno d’Italia, o del periodo fra le due guerre mondiali. Si tratta, per usare un’espressione sintetica, del “servizio alla patria”. Occorre domandarsi lealmente, senza paura della radicalità dell’interrogativo: che cosa possono continuare a significare, oggi, le parole “servizio” e “patria”? Un’altra orazione non basterebbe a risolvere il problema, tanto esso è vasto e impegnativo. Permettetemi solo di offrire un breve spunto, per avviare la ricerca di una risposta.
Fino a che il “servizio alla patria” veniva identificato con l’obbligo di leva, l’espressione stava a significare, sostanzialmente, il “debito” del giovane verso il proprio Paese. Il debito veniva assolto prestando il servizio militare, e perciò preparandosi, se necessario, alla difesa in armi dei confini e dell’integrità nazionale. L’adempimento del servizio in regioni diverse da quella d’origine aveva inoltre lo scopo di aprire il giovane alla conoscenza dei suoi coetanei di aree sociali e ambientali diverse, e di contribuire a creare o rafforzare fra loro un comune sentire (analogamente a ciò che rappresenta sempre la dura esperienza della trincea e del fronte durante una guerra). Poi, la stagione della contestazione del servizio militare e l’introduzione di quello civile hanno di fatto esteso l’accezione dell’espressione “servizio alla patria” alla possibilità di saldare quel debito anche facendosi carico di una gamma di bisogni della nostra comunità non più solo strettamente militari, ma anche sociali ed economici. Infine, la ridefinizione della struttura, dell’organico e dei compiti delle Forze armate ha comportato un ulteriore cambiamento, con la sospensione della leva obbligatoria generale e la trasformazione dell’esercito in senso professionale.
In questa evoluzione, il termine “servizio” ha cominciato a significare non più solo “debito”, ma anche “disponibilità a prestare la propria opera” a scopi civili, sociali, culturali e umanitari. Ora, la domanda cruciale è questa: la parola “servizio” continua a significare qualcosa, per coloro che si avviano a concludere la scuola superiore o varcano la soglia della maggiore età, e per i loro compagni più giovani? È un termine ancora presente nel loro vocabolario e nel loro universo di pensiero? Se sì, per indicare che cosa? Se no, perché è scomparso?
Quello che abbiamo appena detto del “servizio” vale, in proporzioni ancora più grandi, per la parola “patria”. Il suo significato sembra, nel senso comune, essersi quasi “ridotto ai minimi termini”. Si prova quasi paura a pronunciare la parola; e se lo si fa, lo si fa con l’accento che si riserva alle “cose d’altri tempi”, ai valori di un tempo che non c’è più.
Anche qui una riflessione compiuta richiederebbe molto tempo. Mi limito perciò a proporre ancora uno spunto, per avviarla. Esso ci viene suggerito dal fatto che oggi siamo stati circondati da un certo numero di simboli: la Messa, l’Ara della vittoria, l’Alzabandiera, un corteo, la musica, i canti degli Alpini. Ora, che cos’è un “simbolo” ? In parole semplici, è una cosa che significa più di se stessa. È come una porta, che introduce in una dimensione apparentemente non visibile delle cose, ma altrettanto reale, e anzi ancora più importante di ciò che è immediatamente visibile. Si tratta di quella dimensione che, fin dall’antica Grecia, i filosofi hanno chiamato “verità” e “significato” – e vi prego di intenderle nella loro accezione più elementare, per così dire immediatamente umana: come sinonimo dell’evidenza delle cose e dei principi che stanno a fondamento della convivenza sociale.
Ma – e così mi avvio alla conclusione – a quale simbolo guardare oggi, per riscoprire il senso della parola “patria”? Mi perdonerete se traggo da un altro anniversario imminente il suggerimento decisivo per rispondere. Il 12 novembre del 2003 nell’attentato alla caserma dei Carabinieri di Nassiriya, in Iraq, trovarono la morte, pochi giorni prima di rientrare in Italia, diciannove soldati dei Carabinieri. L’emozione che scosse il nostro Paese fu allora grandissima. Ma ancora più grande fu la sorpresa quando la moglie di uno dei militari uccisi, la sera di quello stesso giorno, manifestò il suo perdono cristiano a coloro che avevano ucciso suo marito.
Abbiamo detto prima: il simbolo è qualcosa, che significa più della sua immediata apparenza o consistenza materiale. La memoria di chi non c’è più, la coscienza di un compito di pacificazione e di bene svolti fino al sacrifico estremo, con un occhio particolare per i bambini: ecco, questi sono i tratti, questa è l’immagine viva che dovremmo tutti aver presente, come aiuto ad alzare lo sguardo nella direzione in cui la parola “patria” può tornare, anche – e direi: soprattutto – attraverso l’educazione, a essere significativa per ogni nostra generazione: quella oggi adulta, ma anche le più giovani. Grazie.