Caro direttore,
dopo la morte di Steve Jobs, qui negli Stati Uniti la stampa ha dato ampio spazio a pezzi commemorativi sulla sua vita ed i suoi successi personali e professionali. Il Wall Street Journal e Newsweek hanno entrambi fatto un numero speciale patinato che dettagliava ognuna delle fasi della vita di Steve Jobs con lodi di ogni tipo e misura. Non sono mancate osservazioni sullo “stile” di Steve Jobs verso i suoi collaboratori, che però in fondo sottolineavano la sua determinazione in vista del successo. Come non rimanerne affascinati?
Grandi obiettivi e la nascita di un disagio.Lo stereotipo creato intorno alla figura di Steve Jobs, però, ha generato un disagio in me e alcuni amici. Ad esempio, disagio nel sentire ripetere nei giornali, nei siti web e nelle discussioni di tutti i giorni quelle frasi del suo commencement address a Stanford: “Stay hungry, stay foolish”, oppure “tu puoi connettere i punti della tua vita solamente dopo averla vissuta. Devi confidare nel fatto che in qualche modo i punti della tua vita avranno un senso nel futuro”; “l’unico modo di fare cose grandi è di amare quello che fai”; “abbi il coraggio di seguire il tuo cuore ed le tue intuizioni. Loro in qualche modo già sanno quello che voi volete veramente diventare”. Le frasi di Steve Jobs sono molto simili a quelle che ci sentiamo dire molto spesso nei nostri posti di lavoro, dove non vengono mai meno indicazioni precise e convincenti degli obiettivi e standard di lavoro (mission statements).
Vengono regolarmente proposti incontri per dirigenti in cui vengono indicati quale sia il profilo professionale che il datore di lavoro ed i colleghi si attendono, come fare a realizzarlo e come indirizzare e razionare tempo e energie per farlo con successo. In questi incontri o in conversazioni più causali emergono spesso le stesse considerazioni che Steve Jobs indicava. Per esempio, non è infrequente sentirsi dire che nel cambiare lavoro occorre essere certi che nel nuovo lavoro ci si “possa divertire” (un termine “leggero” per indicare una soddisfazione e corrispondenza professionale) e che senza questo “divertirsi” il lavoro non varrebbe la pena. Spesso in incontri formali viene indicato l’obiettivo di realizzare non soltanto grandi progetti professionali, ma anche di cambiare la cultura professionale e pubblica a livello mondiale. Per esempio, una Facoltà scientifica ha recentemente lanciato lo slogan “From the genes to the globe” per indicare la sfida di affrontare tutto nella vita dell’uomo, senza alcun limite. Nel mission statement veniva indicato come questo approccio possa “creare un tipo di ricerca con una missione ben precisa che potrà affrontare alcuni dei problemi più profondi che l’umanità ha davanti a sé”.
Ma perché un disagio? Il disagio e le conseguenti riserve vengono quando si passano tutti i messaggi ricevuti sotto la lente dell’esperienza di tutti i giorni.L’ambiente descritto, così teso alla perfezione, contrasta con la vita dei singoli. Colleghi e conoscenti comunicano continuamente l’ansia di dover produrre in un ambiente in cui sono circondati da colleghi e professori eccezionali, intelligenti e prolifici. Alla pubblicistica entusiasta e decisa dei giornali e dei posti di lavoro si contrappone però un’esperienza che mostra una realtà di tutti i giorni nervosa, contraddittoria e incerta. Perché questa contraddizione?
Un gruppo molto internazionale di americani, italiani e altre nazionalità si trova qui a Boston tutte le settimane nei propri posti di lavoro per leggere e discutere “Il senso religioso” di Luigi Giussani (The Religious Sense nella traduzione il lingua inglese). L’autore definisce le domande fondamentali dell’uomo (“Quale è il significato ultimo della esistenza?”; “Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?) come la stoffa della natura dell’uomo. Procede poi a descrivere sei posizioni che invece eliminano o riducono drasticamente le domande di cui è fatta la natura dell’uomo. Io personalmente, insieme ad alcuni amici, sono rimasto folgorato dalla somiglianza della proposta fatta nelle celebrazioni di Steve Jobs con la sesta ed ultima di queste posizioni che l’autore intitola “Alienazione”. Don Giussani dice: “Secondo questa ultima posizione la vita ha un senso tutto positivo… [come per Steve Jobs e nei nostri posti di lavoro] … l’ideale della vita risiederebbe in una ipotetica evoluzione nel futuro, a cui tutti dovremmo concorrere come unico significato del vivere. La dinamica spirituale della persona e il meccanismo evolventesi della realtà sociale sono finalizzati a questo futuro [e qui iniziamo a capire i nostri problemi. Ciò per cui ci è proposto di lavorare e spendere le nostre energie è il futuro. Steve Jobs dice che i punti si connetteranno nel futuro; i nostri datori di lavoro ci dicono che avremo enorme e duraturo successo nel futuro]. Questa ottica considera le domande fondamentali dell’uomo come stimolo funzionale alla edificazione di tale progresso, quasi una specie di gherminella con cui la natura ti costringe a servire il suo progetto irreversibile” [è infatti una alienazione]. Ma ciò che è sorprendente è che noi sentiamo la nostra umanità come se fosse fatta per servire questo futuro, per una vaga attesa del futuro, per un proprio successo nel futuro. Le reazioni qui negli Stati Uniti sono state entusiaste, a tutte i livelli, nel ricevere la proposta che i giornali hanno fatto proponendo il personaggio Steve Jobs. Ci siamo sentiti dire mille volte: “Steve Jobs ci dice di non accontentarci [una delle frasi di Stanford], di rimanere affamati, di seguire i nostri ideali. E’ esattamente quello che abbiamo sempre voluto. Dobbiamo seguire, spendere la vita per l’ideale”. Ammesso che la mia interpretazione sia corretta, Don Giussani ci dice invece che la posizione di Steve Jobs è una riduzione delle domande, una menomazione della stoffa di cui siamo fatti. A noi sembra un incremento, a lui una riduzione.
Don Giussani sottolinea che le parole più importanti della vita (amore, libertà, conoscenza) possono essere comprese solo partendo dalla propria esperienza. Una parola molto usata nelle discussioni su Steve Jobs è la parola ideale. Il discorso di Stanford viene letto come un testamento che sviluppa in maniera profetica la parola ideale. Ma questa parola, resiste al test dell’esperienza? Soprattutto, perché l’ideale di Steve Jobs sembra mischiarsi ai nostri problemi di tutti i giorni in una insalata russa in cui tutto si confonde e non si riesce più a vedere bene nulla? Successo, filosofia buddista (Jobs era buddista e tutto quello che ha detto a Stanford è di matrice buddista) ed etica professionale si fondono in discorsi che ci ispirano e ci lasciano più spenti di prima. L’ideale, invece, un qualsiasi ideale che si possa definire tale, non dovrebbe semplificare e chiarire?
In agosto, l’epicentro della città di Boston è stato il Pizza-Meeting, una settimana di proiezioni del meglio del Meeting di Rimini in un giardino nella periferia nobile della città. Tutte le sere highlights del Meeting (compreso il Tg Meeting promosso da IlSussidiario.net) veniva proiettato sul muro di un garage di una famiglia più o meno condiscendente alle intemperanze del pubblico presente. Quale sorpresa rileggere qualche settimana dopo le testimonianze dei volontari del Meeting! Ragazzi con un futuro incerto di fronte (di sicuro più incerto degli studenti che sono riusciti ad entrare in un dottorato al Massachusetts Institute of Technology o fanno un master ad Harvard e che quindi sono stati ammessi nella cerchia dei migliori al mondo. Certamente più insicuri di quelli di noi che sono medici o infermieri al Massachusetts General Hospital oppure professori al Boston College o ad Harvard). Ma questi ragazzi, forse scalcagnati se comparati a noi, sono forti di una certezza del proprio presente che genera una baldanza verso il futuro. A noi di Boston è venuta in mente una cosa detta di recente da Julián Carrón: “Siamo stati facilitati a riconoscere le cose presenti come presenti. La realtà è interessante, la realtà ci ha interessato questa estate per quella possibilità di cogliere il Mistero presente in quelle cose; noi siamo educati a riconoscere sempre di più ogni cosa presente, dalla foglia in poi, perché la presenza eccezionale di Cristo in questi fatti, in quello che succede, li rende così presenti a noi da farci venire fuori dalla distrazione in cui cadiamo costantemente. E questa è la modalità con cui il Mistero ci educa a riconoscere, poi, tutto come presenza, tutto some segno”. Oppure, facendo riferimento ai grandi russi, si potrebbe parafrasare Dostoevski: “Io voglio vederlo adesso l’agnello che gioca con il leone, non nel futuro, quando potrei essere già morto”. I ragazzi del Meeting vedono nel loro presente l’agnello che gioca con il leone e per questo sono certi del futuro. Più certi dei nostri ragazzi che hanno sul petto il badge di Harvard.
Tornando al nostro, la pubblicistica su Steve Jobs è arrivata a proporre che il fatto che tutti lo ammirino e rimpiangano dimostrerebbe che “Non deve esserci niente di più contagioso di un uomo che vive … Ecco che cosa rende Jobs così grandioso agli occhi di noi comuni mortali: in lui vediamo la possibilità di recuperare quel desiderio di cui il cuore è fatto e che rende la vita vita”. È vero, Steve Jobs è un grande personaggio. Ma se dovessi scegliere, io vorrei essere uno dei quei ragazzi del Meeting. Il cuore non è fatto del desiderio di fondare Apple, di avere successo, o di non accettare una vita da impiegato delle poste per andare a lavorare ad Harvard. Boston è la città dove ciò che conta è avere successo, dove più di tutto si vuole il successo nella vita. Ma Boston e Steve Jobs ci propongono di sacrificare tutte le nostre energie di oggi per un successo nel futuro. I risultati li vediamo tutti i giorni in noi e nei nostri amici – sono i risultati della riduzione delle domande che don Giussani descrive benissimo nel Senso religioso: paura, instabilità, solitudine, incomunicabilità, perdita della libertà. L’esperienza invece è reale e non tradisce.
(Andrea Baccarelli)