La situazione attuale delle relazioni fra la cultura laica e la Chiesa in Russia mi sembra difficile e tutt’altro che chiara. Per questo vorrei cominciare da ciò che mi è chiaro, da alcuni brevi rilievi su questi incontri nella nostra storia. Non sono molti. Come sappiamo, Aleksandr Puškin e il grande santo Serafim di Sarov erano contemporanei, ma un loro incontro sarebbe stato impensabile. La cultura laica e la vita ecclesiale nell’epoca successiva a Pietro il Grande si svolgevano in ambiti completamente diversi. Uno dei momenti in cui questo isolamento si frantumò fu il Secolo d’Argento.
Quanti si occupano di storia e di cultura russa conoscono i ricchi frutti portati da questo incontro. I “filosofi religiosi” russi, come vengono chiamati Berdjaev, Florenskij, Šestov e altri ancora, ormai da tempo vengono tradotti, letti e discussi in tutto il mondo, e non solo negli ambienti cristiani. Nella Russia sovietica tale corrente non ebbe seguito – né poteva averlo, per ovvi motivi. Questi autori erano vietati o semivietati, i loro libri erano noti solo a pochissimi; il nostro pubblico più vasto ha avuto la possibilità di conoscere il pensiero religioso russo solo dalla fine degli anni Ottanta. Una continuazione, a distanza di anni, di questa linea potrebbe essere il “nuovo cristianesimo” come ci viene presentato nel romanzo di Boris Pasternak, Il dottor Živago; c’è un personaggio del romanzo, Nikolaj Vedenjapin, zio del protagonista e prete spretato, al quale appartiene tutto il complesso di concezioni sviluppate nel romanzo sulla “nuova storia” e il “nuovo cristianesimo”, sull’“uomo inteso come artista”, e che fa pensare a un ritratto collettivo dei filosofi religiosi russi del Secolo d’Argento. I temi della libertà, della persona, della creatività umana; i temi della drammaticità e paradossalità della fede cristiana sono fra gli argomenti principali, che in precedenza non erano mai stati sollevati “entro le mura della chiesa”, perché era molto più tipico della tradizione ortodossa russa concentrarsi sulla fedeltà al passato, sulla “fede dei padri”, sull’eterno e sovratemporale. Questo era più rispondente al carattere monastico, ascetico, contemplativo della spiritualità ortodossa. Lavorare sulla storia, sul “qui e ora”, nella cultura russa del XIX secolo toccò invece agli artisti. Non a caso spesso si individua in Dostoevskij la fonte di tutto il pensiero religioso russo. I filosofi religiosi russi trassero dalla cultura laica il senso del momento storico, l’ispirazione dell’epoca storica di frontiera nella quale si trovarono a vivere. Il pensiero religioso russo per molti aspetti rimase un pensiero artistico, da artisti. Il concetto stesso di artista e di creatività in questa sua caratteristica accezione, giunse indubbiamente in Russia dall’Europa, insieme a tutte le innovazioni dell’epoca di Pietro. Il Medioevo ortodosso nella Rus’ (che nell’insieme si protrasse fino al XVIII secolo) non conosceva queste idee postrinascimentali di artista e di creatività personale.
Mentre il nostro ampio pubblico alla fine degli anni Ottanta stava ancora compitando sulle opere di Florenskij e di Berdjaev, che aveva appena scoperto, non sapeva o non si rendeva conto di stare assistendo da contemporaneo a un secondo storico incontro fra la Chiesa e la cultura laica. Il primo discorso su quanto è avvenuto nella zona d’ombra, nello spazio non ufficiale della cultura tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta (epoca che il filosofo V. Bibichin ha definito “nuovo rinascimento”), è stato il documentario in quattro puntate di Aleksandr Archangel’skij, Il gran caldo. Il film delinea quest’epoca, ne fa vedere i protagonisti (naturalmente, è chiaro, non ci sono tutti); non tenta neppure di individuare i temi che in quel periodo assorbivano il pensiero di scienziati, artisti, scrittori, musicisti. Ed è comprensibile, l’intento del progetto era un altro.
Questo “ritorno sotterraneo alla fede” di intellettuali e artisti dopo decenni di ateismo coatto ricordava per alcuni versi la “rinascita religiosa” del Secolo d’Argento, ma per altri versi se ne differenziava profondamente. La ricordava, innanzitutto, per l’immediata sensazione di una nuova ispirazione che scosse molti, portando un senso di liberazione, di scoperta di una nuova profondità, dello spalancarsi di una prospettiva. “All’improvviso la vista si allargò intorno a noi”. La Chiesa (o più esattamente il cristianesimo, o ancor più esattamente una “religiosità” molto indeterminata; M. Epštejn, mio compagno alla facoltà di lettere di Mosca e ormai da tempo docente universitario in America, ha descritto questo fenomeno con il nome di “religione povera”), e la libera creatività artistica e intellettuale, si incontrarono, per così dire, nelle catacombe, perché sia l’una che l’altra erano sottoposte dall’ideologia sovietica a feroci persecuzioni. Se la Chiesa ortodossa un fin dal 1917 aveva cominciato ad acquisire un numero a tutt’oggi incalcolabile di martiri e testimoni della fede, anche la libera creatività mostra una quantità di propri martiri e testimoni, quali divennero i migliori artisti, scienziati e pensatori, uccisi e vessati per la loro fedeltà al genio umano e alla sua storia.
Per l’alto valore dei secoli trascorsi,
per la nobile stirpe umana ho rinunciato
anche ad alzare il calice al banchetto dei padri
e alla letizia e al mio stesso onore.
Così Osip Mandel’štam definiva l’oggetto della sua professione di fede.
Secondo i progetti dell’utopia, entro un determinato anno il paese avrebbe dovuto diventare al cento per cento ateo, e l’arte al cento per cento “proletaria”, cioè ideologicamente manipolata, sia nel “contenuto” che nella “forma”. Per quanto riguarda il pensiero, ne era semplicemente venuta meno la necessità: “l’unica dottrina vera”, il marxismo volgarizzato, aveva già fornito la risposta a tutti gli interrogativi, storici, sociali, scientifici (partendo da questo presupposto, venivano stroncati gli indirizzi “estranei”, “idealisti” e “borghesi” in biologia e linguistica e in molti altri campi di ricerca). L’unico tipo di creatività umana di cui questo Stato aveva bisogno, e che esaltava, era la tecnica, che prometteva la “vittoria sulla natura”.
Nessuno di questi progetti utopici – né il primo (l’ateismo totale), né il secondo (un’arte totalmente manipolata), né il terzo (scienze interamente controllate dall’ideologia), riuscì a realizzarsi allo stato puro. Ma pur nella loro parziale attuazione essi si lasciarono dietro fiumi di sangue, una vastissima degradazione del potenziale mentale del paese, un’ignoranza generalizzata in un gran numero di sfere umanitarie.
Il vento di liberazione che si levò inaspettatamente alla fine degli anni Sessanta, contribuì anche ad avvicinare la cultura laica libera alla tradizione spirituale e alla Chiesa ortodossa perseguitata. Dall’epoca di Pietro il Grande questi due principi in Russia erano esistiti senza una profonda interazione, e tanto più il loro incontro fu sorprendente.
Anch’esso, come del resto il primo incontro di cui abbiamo parlato – la rinascita religiosa dell’inizio del XX secolo – apportò frutti che hanno già ottenuto un riconoscimento universale (i film di Tarkovskij, la musica di Arvo Pärt, di Sil’vestrov, la prosa di Venedikt Erofeev), come pure frutti che cominciano appena ad essere conosciuti (la pittura ieratica di M. Schawartzman, il pensiero di V. Bibichin, la poesia del samizdat). Figura centrale di questa “nuova rinascita religiosa” nella cultura laica, e maestro di molti suoi protagonisti è stato Sergej Averincev. Il nome di Averincev è noto in Italia. È in preparazione un grosso volume di suoi scritti in italiano, con il titolo Verbo di Dio e parola dell’uomo, che si incentra sul tema fondamentale della sua opera, la Sofia Sapienza Divina. Le circostanze dell’epoca, che non consentivano un discorso teologico diretto, contribuirono al sorgere di un genere particolare: filologico nelle sue fonti, ma aperto ad amplissime prospettive ermeneutiche. “Non tutto il male vien per nuocere”, dice il proverbio. A scopo cospirativo, per distrarre lo sguardo dei capi e della censura Averincev inventò un virtuoso sistema di trattare i temi più centrali della fede e della dottrina sotto forma di dotti commentari ad aspetti che sembravano apparentemente specifici, di nicchia. Se Averincev sapeva scrivere – noi, a nostra volta, sapevamo leggere il suo “messaggio cifrato”. Venne così trovato un linguaggio di annuncio cristiano e di riflessione teologica che prima non esisteva, e che rispondeva in maniera ideale a ciò che poteva essere accetto ai nostri contemporanei: una riflessione, una ricerca priva di superficiali tentativi di moralizzazione, di dichiarazioni dottrinali, ma in grado di coinvolgere immediatamente e in profondità il lettore, di farlo penetrare nel mondo stesso di azione della sapienza, nel mondo dei significati e dei nessi tra i significati.
La sintesi di erudizione scientifica, di geniale intuizione e di fede personale presente nelle opere di Averincev ha aperto nuove possibilità sia per gli studi umanistici laici (si basano infatti sull’idea di comunione, e non di astratta descrizione oggettiva intesa come unico approccio “scientifico”), sia per il pensiero ecclesiale. Averincev, per usare una sua espressione, è venuto a “costruire ponti sui fiumi di ignoranza”, di una grave ignoranza, creata dai “decenni bui” di indottrinamento sovietico, durante i quali la cortina di ferro non separava la persona soltanto dal mondo contemporaneo, ma anche da tutta la tradizione culturale. Tuttavia, Averincev non era un maestro nel senso che condividesse la sua favolosa erudizione: piuttosto creava nuovi significati, in nesso diretto con il momento storico che egli percepiva con grande acume.
Se i pensatori del Secolo d’Argento avevano presentato per primi nella storia russa – come ho già detto – i temi della libertà, della persona, della creatività come temi religiosi, il nervo della novità di Averincev è consistito, io credo, nel tema di una nuova razionalità (nuova rispetto alla razionalità illuminista, e radicata nel concetto biblico di Sapienza (1)). Erede del Secolo d’Argento, su taluni aspetti Averincev polemizza con esso, introducendo nel pensiero religioso alcuni correttivi su cui la storia del XX secolo aveva indotto a riflettere. Fra essi, il più netto rifiuto di ogni tipo di utopismo e l’esigenza di una profondissima lucidità e dialogicità del pensiero (“la capacità di restare aperti a domande e obiezioni”). Probabilmente, Averincev è stato il primo fra tutti i pensatori russi a superare la costante e fondamentale divisione fra la Russia e tutto il resto del mondo (soprattutto occidentale), senza diventare per questo un “occidentalista”, ma vedendo il proprio paese come partecipe della civiltà cristiana universale. Questa è una rivoluzione importantissima nella secolare inerzia del pensiero russo. Per usare le parole di V. Bibichin, Averincev ha mostrato il cristianesimo come un luogo di comunicabilità e di comunione, in grado di accogliere in sé tutto ciò che di buono l’umanità ha prodotto.
Averincev non è ancora stato letto, meditato e assorbito, né dalla nostra cultura umanistica laica, né della Chiesa. La sue eredità appartiene al futuro, e come vorrei che fosse un futuro prossimo! Intanto i tempi sono cambiati. Insieme alla fine delle persecuzioni l’incontro fra la creatività oppressa e l’ortodossia oppressa è finito. Dove e come è possibile oggi un nuovo incontro? Dove e come può proseguire il lavoro iniziato negli anni Settanta?
Più volte negli ultimi decenni ho avuto modo di parlare del fatto che la cultura umanistica contemporanea, la creatività artistica contemporanea sta giungendo al limite dell’esaurimento (2). La protesta sociale, la parodia, i diversi tipi di nevrosi – questi sono i soli temi rimasti all’arte attuale: non è più neppure un’arte della disperazione, come l’alto modernismo, ma un arte post-disperata. La memoria di un altro mondo e di un altro uomo è custodita dalla tradizione cristiana. D’altro canto, un altro aspetto della nostra crisi di civiltà è dato dal fatto che anche la Chiesa da tempo non genera grandi opere creative com’era avvenuto all’epoca di Fra Angelico o di Andrej Rublev. Devo riconoscere che attualmente non vedo altro luogo in cui il dono creativo possa incontrarsi con l’ispirazione cristiana, se non il cuore dell’uomo, dell’uomo “singolarmente preso”.
Per non soffocare dalla solitudine e non smarrire la “dimensione dell’universale”, questo cuore ha bisogno almeno di una ristretta cerchia di amici, di persone che avvertano come realmente indispensabile ciò che esso fa. Sforzi organizzativi, iniziative culturali possono contribuire a creare un luogo di incontro, ma possono anche ostacolarlo. A mio avviso, oggi in Russia si verifica soprattutto la seconda alternativa. La profondità e libertà che sono componenti indispensabili di questo incontro, rifuggono le occasioni pubbliche e formali, istituzionali. Nella stampa ecclesiastica odierna vediamo dominare un tipo di pubblicistica che mette a tema argomenti di attualità spicciola o preoccupazioni moralistiche. In questo momento non si odono voci di persone che sollevino gli occhi oltre l’attualità spicciola, oppure vi scorgano un’altra dimensione, più profonda, come avveniva nelle opere di Florenskij, Losev o Averincev.
(1) Ne ho parlato ampiamente nel mio libro Apologia della ragione, Milano 2009
(2) Cfr. il discorso per il Premio Solov’ëv