In tempi difficili per la situazione economica si moltiplicano i richiami alla sobrietà della vita e i sacrifici resi necessari dalla crisi vengono motivati da un amor patrio che non di rado appare astratto. Ma in ogni caso, dopo anni spensierati, forse giunge ora il tempo di una maggiore oculatezza. Di necessità torna di moda Seneca, rappresentante della morale stoica, della disciplina di sé, della compostezza dei costumi.



Un suo profilo scritto da Maria Zambrano illumina la figura dell’autore latino nato a Cordoba all’inizio dell’era cristiana. Benché tanto si sappia di lui, c’è nella sua personalità qualcosa di misterioso, che insieme attira e respinge: maestro dello stoicismo, scrittore dallo stile spezzato, spesso oscuro e difficile da tradurre, uomo cui si rimprovera l’incoerenza tra i costumi e la dottrina, precettore fallito nel tentativo di educare il principe, nella maturità saggiamente lontano dai palazzi del potere, dedito agli studi e alla vita famigliare, ma non abbastanza per evitare il suicidio ordinatogli da Nerone.



La Zambrano lo ama molto, forse facilitata dalla comune origine spagnola e dalla permanenza di Seneca nella cultura popolare di quella terra. Nel suo studio la figura di Seneca non viene tanto inserita nell’epoca imperiale, benché essa sia definita come un tempo “di ignominia impensabile“, quanto nella lunga tradizione dei filosofi che a partire da Socrate regalano all’occidente il culto della ragione intera. Egli è più precisamente un sapiente, “un padre molto virile e molto materno insieme“, che sostiene con la sua forza il ragionare lieve e piegato sulla complessità che anche la vita più semplice porta con sé. La sua paternità parte da una compassione per la fragile puerilità dell’uomo e si esercita nel portargli una consolazione che non è un semplice anestetico, ma la generazione di un’anima addolcita e per così dire rassegnata.



La sua morale parte dalla disillusione del tempo che fugge, dalla morte che sovrasta l’esistenza, ma non è una morale dell’inattività. E’ anzi la morale dell’operosità e la sua prima regola è il lavoro: non una azione precipitosa o un irrequieto andare e venire, ma un agire che modifica le cose, un atto che racchiude fede e volontà, amore ed entusiasmo. L’agire dell’uomo diventa morale se e quando percepisce l’armonia con il cosmo, e acquista una coloritura estetica quasi incomunicabile: “Ricerchiamo un bene che non sia apparente, ma solido e costante e bello d’interiore bellezza, e portiamolo alla luce. Non è lontano: basta soltanto sapere dove tendere la mano. Per queste caratteristiche del suo pensiero poco mancò che la Chiesa spagnola includesse nella schiera dei Padri anche Seneca, il più citato nel forbito linguaggio dei predicatori e dei sermoni andalusi.

In Italia e altrove il suo nome è accostato a quello di san Paolo e l’autenticità del carteggio tra i due, questione molto dibattuta, ha autorevoli sostenitori. L’apostolo si rivolge ai Galati con grande tenerezza: “Figli miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo non sia formato in voi. In alcuni casi le sue esortazioni morali ricalcano elementi stoici, che dovevano essere molto presenti nella società del suo tempo.

Ma, come ha ricordato Benedetto XVI nell’Angelus del 4 dicembre, il cammino cristiano non si limita alla sobrietà dei costumi, va molto più a fondo. E’ il dono ricevuto e custodito di un cambiamento di vita profondo, non riducibile a una nuova morale più giusta. La giustizia è la fede, il rapporto con il Dio incarnato. Per questo la pur apprezzabile proposta di Seneca (quanti sono oggi coloro che ne avrebbero la forza?) suona come poco fondata e difficilmente praticabile, mentre ciò che attinge a quella grazia, la parola della Chiesa, si fissa nelle menti con ben altra autorità.