Su queste pagine è stato affrontato, sotto vari aspetti, il tema della crisi dell’autorità. Il dissidio tra autorità e ragione rappresenta, nel bene e nel male, un nodo costitutivo dell’assetto intellettuale della nostra modernità. Lo osservava già Hannah Arendt: la crisi attuale dell’autorità dipende direttamente dalla struttura intellettuale e politico-sociale della modernità occidentale, la quale ha perduto “the dimension of depth“: la dimensione della profondità. Ovvero il riferimento costitutivo a qualcosa di (sempre) precedente e fondante.
Occorre però riconoscere come l’attuale crisi della ragione moderna non solo non abbia portato ad un’ampia rivalutazione dell’autorità, ma ne abbia anzi acuito la crisi.
Mi spiego. L’unica forma di autorità che la modernità ha riconosciuto come legittima è quella della ragione autonoma, intesa quale essenza esclusivamente pensante (res cogitans) applicata alla conoscenza di una realtà sostanzialmente riducibile ai suoi aspetti misurabili e quantificabili (res extensa). La crisi dell’unica forma di autorità ritenuta legittima – quella della ragione autonoma – ha così portato la crisi dell’autorità al suo parossismo.
Agli albori della modernità, la posta in gioco insita nella grande raffigurazione di una distinzione netta tra res cogitans e res extensa era duplice. In primo luogo si trattava di garantire la possibilità di una relazione oggettiva e neutra con il reale, e questo al fine di legittimare la scienza moderna: occorreva cioè postulare un soggetto (res cogitans) che fosse di tutt’altra pasta rispetto all’oggetto della sua osservazione (res extensa). In secondo luogo si trattava di reagire a esagerate pretese di mediazione provenienti da istanze politiche e religiose: occorreva affermare l’immediatezza di certi diritti fondamentali dell’individuo, diritti da riconoscere a ogni essere umano fin dalla nascita, e dunque indipendentemente dalla sua storia e dalla sua posizione: dalla sua collocazione nel tempo e nello spazio. In questo senso la grande rappresentazione teorica di una res cogitans atemporale e aspaziale ha avuto il merito di assicurare e garantire la nascita e lo sviluppo non solo della scienza moderna, ma pure del moderno Stato di diritto. Meriti preziosi e di indubbio valore.
I problemi sono però nati nel momento in cui si è ritenuto che questa rappresentazione artificiale potesse esaurire del tutto l’umanità dell’uomo. Leggere e cercare di comprendere l’autorità all’interno del paradigma di una ragione radicalmente priva di presupposti (res cogitans) ha infatti significato precludersi la possibilità di trovare delle categorie adeguate allo scopo. È infatti evidente come non si possa comprendere l’autorità se non a costo di un radicale ripensamento della nostra umanità e della nostra libertà, in quanto umanità e libertà ricche di presupposti: ovvero in quanto inserite in un tempo e in uno spazio.
Se infatti giuridicamente e politicamente la libertà non può che essere un diritto universale da riconoscere immediatamente a chiunque, da un punto di vista etico e antropologico tale immediatezza non rappresenta che un’astrazione. Eticamente, la libertà è infatti anche un dovere e una responsabilità. Antropologicamente, poi, si è sempre in cammino verso la propria libertà. Non si nasce liberi: lo si diventa, e lo si diventa grazie all’incontro con libertà più mature della propria, che diventano così, delle autorità. Più la libertà con la quale si entra in relazione è matura, più essa avrà il carattere di un’autorità generatrice di libertà. In fondo questo è il principio di ogni educazione.
In questo senso, accanto ad un’esperienza (giuridico-politica) della libertà come diritto, occorre riconoscere un’esperienza della libertà come dovere (livello etico) e, infine, una più fondamentale esperienza della libertà come dono (livello antropologico). L’aver appiattito ogni possibile esperienza della libertà sul paradigma giuridico-politico di un diritto da rivendicare immediatamente, ha comportato una riduzione dell’autorità a limite (più o meno necessario) della libertà. Ha cioè significato, nella migliore delle ipotesi, una riduzione dell’autorità al rango di un male minore da sopportare: comunque ad una frustrazione della libertà.
Per tornare a comprendere la natura generativa di un’autentica relazione di autorità, occorre dunque tornare a fare i conti con la dimensione temporale della nostra vicenda umana: con quella dimensione della profondità di cui parlava Arendt. A livello individuale, questo significa riconoscere che si è sempre in cammino verso la propria libertà – verso la propria umanità – la quale non può essere data semplicemente per scontata (se non nel quadro di quella preziosa astrazione giuridico-politica che costituisce uno dei pilastri del moderno Stato di diritto). A livello sociale, fare i conti con la dimensione costitutiva della temporalità significa poi riconoscere che siamo collocati all’interno di una struttura di trasmissione in forza della quale è importante non solo garantire le condizioni di uno «spazio pubblico», ma pure di una «durata pubblica» (la quale si rivela essenziale proprio per garantire la qualità dello spazio pubblico).
Solo riconoscendo la ricca genealogia della nostra libertà e della nostra umanità – quali libertà e umanità ricche di presupposti – sarà possibile tornare a comprendere la natura di un’autorità quale generatrice di libertà: anche in contesto di modernità.