Scrittore del privato, Italo Svevo. Rinuncia volentieri al contesto sociale. Gli interessa soltanto scandagliare nel profondo gli abissi sfuggenti e contraddittori dell’interiorità. Le sue opere sono il sintomo più acuto – insieme a quelle di molti altri grandi della sua generazione – dello sfaldamento ideologico della cultura europea, del disorientamento prodotto dal crollo dell’ancien régime, l’impero che la grande guerra ha cancellato. L’io borghese vacilla. A Trieste, terra di confine ideale, culturale e politico, Italo Svevo, figlio di una ricca famiglia commerciale, scrive le ansie, le inquetudini e le incertezze sue e insieme del suo tempo.
È abbastanza significativo che i 150 anni della nascita di Svevo coincidano con quelli dell’Italia» dice Elio Gioanola, critico letterario, scrittore, già docente di Letteratura italiana nell’Università di Genova. «Non per niente volle chiamarsi Italo e avrebbe potuto benissimo, per nostra disgrazia, essere uno scrittore tedesco. Invece scelse l’italiano perché gli interessava mettersi sulla traccia della grande tradizione letteraria che aveva in Firenze la sua patria ideale. Le sue letture, quando usciva dalla banca, erano i classici italiani, Alighieri, Petrarca, Ariosto, Tasso…».



Professor Gioanola, il tema dell’identità e delle radici è centrale in Svevo e attraversa come una ricerca sofferta tutta la produzione dello scrittore.

Svevo è stato uno degli «inventori», forse il primo nell’ambito della letteratura moderna, della crisi radicale del soggetto romantico. Sulla scia anche di Dostoevskij, Svevo ha creato in qualche modo l’eroe negativo, cioè colui che si sente eterodiretto, che sa che dietro la sue spalle c’è una forza indipendente dalla sua volontà e dalle sue decisioni, e che lo spinge a cose che magari non aveva intenzione di fare. Zeno (Zeno Cosini, il protagonista de La coscienza di Zeno, ndr) è un esemplare straordinario di questa eterodirezione. Banalmente: spara a un bersaglio, ne colpisce un altro. Ha imparato i compromessi necessari, e dunque non prende più drammaticamente le cose come i due suoi predecessori romanzeschi, Alfonso Nitti ne Una vita e Emilio Brentani in Senilità. Ma le «forze in campo» risentono in modo preponderante di ciò che Freud chiamava inconscio.



Ha citato il padre della psicanalisi. Abbiamo a che fare, rispetto ai predecessori, con uno scrittore che elegge la vita privata a sfera principale nella quale si gioca il senso dell’esistenza. Quali sono i fattori che determinano questa svolta?

Il rifiuto del realismo dominante fino alla fine dell’800. Tutta la letteratura realistica è una letteratura del sociale, si svolge in ambiti che vedono in azione personaggi che sono in-concepibili fuori contesto. Invece leggendo Svevo quasi non si sa dove si è, l’ambiente conta pochissimo; conta invece la sua scrittura, che come una sonda va in giù a scandagliare le ragioni ignote, le cose che non vorremmo fare. È l’introspezione feconda tipica del novecento – la vediamo in Pirandello per esempio –, tutta centrata sugli esistenziali, sulla morte, sul tempo.



Coma cambia di conseguenza la scrittura letteraria?

Gli effetti sulla scrittura sono vistosi: è la fine del descrizionismo. Se leggiamo qualsiasi romanzo dell’800, da Manzoni in avanti, lo troviamo pieno di descrizioni di paesaggio. Con Italo Svevo queste parti spariscono. Egli è forse il principale autore di questa svolta radicale verso l’interno.

E non è un letterato di professione.

No, infatti. Ma intuisce le cose essenziali della contemporaneità. Nasce in un fervido ambiente culturale e politico mitteleuropeo, quello triestino, che lo proietta in una situazione completamente diversa da quella della letteratura tradizionale. La sua è una scrittura classicamente «brutta», come quella di Pirandello: non c’è più niente del bello scrivere, di letterario nel senso tradizionale del termine; ciò che conta è l’essenza, non più la forma, il gioco della letteratura.

Esiste un’eredità di Svevo?

Diffido sempre molto delle eredità letterarie, anche perché Svevo stesso non si è sentito erede di nessuno. Ogni grande scrittore inventa situazioni assolute, che non danno spazio a imitazioni o conseguenze particolari. Se pensiamo anzi alle recensioni che riceveva La coscienza di Zeno negli anni venti, c’è da rabbrividire: nessuno aveva capito cosa stava succedendo. Lo aveva capito però Montale, che era uno spirito affine. Montale, come Svevo, è un altro grande dilettante che scrive perché non può farne a meno: la loro è una scrittua necessitata in qualche modo da queste pulsioni profonde che non trovano appagamento in nessuna delle forme tradizionali.

C’è invece un’apertura di tipo metafisico in Svevo?

Forse è il più laico di tutti i nostri scrittori. Chiediamoci: la cultura vincente all’inizio del secolo qual è? Quella che viene da Hegel, cioè l’idealismo razionalistico, con le sue successive varianti materialistiche e storicistiche. Tutto ciò che non è ragione non c’entra, non conta. Invece la letteratura riapre i giochi: Montale si dichiarava amico dell’invisibile, Pirandello dice che c’è sempre un oltre. Non spetta più alla religione formulare l’esigenza religiosa, ma alla scrittura.

La sofferenza di Svevo dunque non ha a che fare con quelli che Slataper chiamava i «dolori metafisici latenti», caratteristici dell’uomo moderno?

Direi di sì, e bisogna contare anche Michelstaedter a questo punto. Gli autori dell’area triestina, proprio perché sono fuori dai giochi della letteratura in quanto tale, possiedono antenne sensibilissime, capaci di recepire le scosse profonde che stanno minando tutte le certezze borghesi. La loro è una ferita profonda, che bada agli esistenziali e fa di essi il fondamento della medtazione che troverà spazio proprio nell’esistenzialismo.

Un suo personale consiglio al lettore che voglia accostarsi a Svevo?

Ci sono dei racconti straordinari, come Il malocchio: io comincerei proprio da lì. Oppure La buonissima madre, o La madre. Non li legge quasi nessuno ma sono dei capolavori. Contengono in nuce ciò che Svevo sviluppa nei romanzi.