Si è spenta ieri a Berlino la scrittrice tedesca Christa Wolf. Una vita trascorsa sotto i regimi totalitari: prima il giogo nazionalsocialista della Germania di Hitler, e poi il comunismo della Repubblica democratica tedesca, che Wolf abbracciò con convinzione in gioventù, salvo poi prenderne le distanze nella seconda metà della vita, senza però mai «abbattere» quel Muro che i seguaci di Marx e Lenin misero in piedi per proteggere la loro costruzione politica dalle cattive sirene del mondo libero. Christa Wolf nacque nell’attuale Polonia nel 1929 – allora parte della Germania -, venne inquadrata nella gioventù nazista, a vent’anni scelse il blocco sovietico e si iscrisse al Partito socialista unificato di Germania. Germanista, critica letteraria, la sua prima opera letteraria di fama internazionale fu Il cielo diviso, uscita in Germania nel 1963, a due anni dalla costruzione di quel Muro di cui Christa Wolf prese le difese. Successivamente la sua ortodossia cominciò a incrinarsi. Criticò il regime, senza però mai abbandonare il socialismo. Dopo quello scorcio di novembre del 1989, che sancì la fine del blocco orientale e cambiò la storia europea, denunciò da posizioni socialiste la crisi dell’occidente. La notizia della morte è stata diffusa ieri da Der Spiegel.
«Faccio una cauta difesa di Christa Wolf» dice a IlSussidiario.net Franz Haas, germanista, docente nell’Università statale di Milano. «Sicuramente andrebbe assolta dall’accusa di esser considerata una scrittrice di regime. Si potrebbe dedurre da alcune opere, è vero, ma la sua produzione nell’insieme non lo giustifica. Resta in ogni caso la scrittrice più rappresentativa della Germania comunista».
Come cambia la personalità di Christa Wolf nell’arco di tempo che va dalla sua prima produzione letteraria al crollo del Muro?
Mentre nel primo periodo della sua attività, che comincia nei tardi anni cinquanta con Moskauer Novelle, Wolf è ancora completamente schierata dalla parte del regime comunista e in linea con il partito, successivamente ne prende le distanze, ma rimanendo all’interno dell’orizzonte ideologico della Ddr. Wolf divenne critica nei confronti del regime fino alla soglia del punto di rottura, ma senza spingersi oltre: se avesse fatto un «passo» in più, sarebbe stata cacciata o messa in prigione, come è stato per tanti altri.
In che modo il rapporto con il potere ha influenzato le sue opere?
Si tratta di un condizionamento presente e innegabile, ma che si evolve nel tempo. Lei stessa rinnegherà molti scritti del periodo giovanile, rimproverandosi di essere stata troppo credente in quella «chiesa» che era il comunismo.
Una delle sue opere più note è Il cielo diviso, tradotto in italiano nel 1975.
Sì, è forse l’opera più nota. È una storia d’amore in cui la protagonista, fedele al regime, vuole rimanere a Berlino est, mentre lui va all’ovest e per questo impersona la figura negativa, colui che tradisce la patria. Non è molto noto che questo libro è la risposta al romanzo di un altro scrittore tedesco orientale dell’epoca, Uwe Johnson, che nel 1959 pubblica Congetture su Jakob, in cui la situazione è invertita: c’è una coppia di amanti in cui la ragazza va in occidente e il giovane, invece, rimane. Johnson, non potendo pubblicare il romanzo in Germania est, lo fece uscire in Germania ovest ma questo gli costò l’abbandono della patria. Wolf replicò a Johnson con una cauta difesa del regime comunista.
Il 1989 cambiò qualcosa nella posizione di Wolf?
Rimase traumatizzata dagli attacchi che le vennero rivolti nel 1993, quando si seppe che era stata una collaboratrice informale della polizia segreta. Scrisse anche un libro di saggi in cui si difendeva, e tutte le sue opere da allora sono state la trasfigurazione letteraria di problemi politici tipici delle dittature. Criticò il totalitarismo, ma nel paradosso di un’autodifesa della sua appartenenza ideologica. Certamente non è rimasta la comunista «credente» che era all’inizio degli anni sessanta.
Che dire delle sue opere dal punto di vista letterario?
Molte opere valgono ancora. Il cielo diviso non è una grande opera letteraria, ma è un ottimo «documento» in grado di far rivivere al lettore l’atmosfera di quel periodo, in Germania e nel blocco comunista. Sono di rango superiore le successive Cassandra e Medea.
Perché il ricorso a queste figure mitologiche?
Per poter parlare apertamente di cose di cui non avrebbe potuto parlare. Allora c’erano due grandi movimenti, quello pacifista e quello femminista. Siamo nei primi anni ottanta, al culmine della guerra fredda tra est e ovest, Cassandra li ammonisce entrambi e dice cose che senza travestimento mitologico non avrebbe potuto dire. All’epoca di Cassandra, nel 1983, la Wolf aveva già preso le distanze dal regime.
Se Il cielo diviso non è un’opera d’arte, allora quali sono i lavori di Christa Wolf che vale senz’altro la pena di leggere?
Molto più validi del Cielo diviso sono Trama d’infanzia, del 1976, e il precedente Riflessioni su Christa T., del 1968, due opere più o meno autobiografiche nelle quali la Wolf riflette sulla sua infanzia sotto il nazionalsocialismo e sulla sua gioventù sotto il comunismo. Queste sono opere d’arte certamente avanzate, oltre a Cassandra e a Medea.
Il suo consiglio al lettore italiano?
Se è disposto ad affrontare una scrittura particolarmente ostica, suggerisco le Riflessioni su Christa T. Dico ostica perché siamo nel 1968, in un periodo in cui la letteratura tedesca molto gioca sullo sperimentalismo, utilizza una prosa riflessiva, contorta, difficile, con continui salti avanti e indietro nel tempo. Più abbordabile, invece, Cassandra.
(Federico Ferraù)