L’intervista, inedita, a Pier Paolo Pasolini, registrata il 30 ottobre 1975 a Stoccolma, che, anticipata venerdì da Repubblica, esce nel nuovo numero de L’Espresso, non aggiunge, certo, nulla di nuovo alla conoscenza dell’“ultimo” Pasolini, quello delle Lettere luterane e dei Scritti corsari. E, tuttavia, sia pure come conferma, rappresenta un documento prezioso dell’ultima fase dell’autore. Ne emerge lo straordinario diagnostico della “rivoluzione antropologica” in Italia, il teorico della scomparsa delle “lucciole”, del tramonto del mondo contadino, religioso, e delle forze popolari, cattoliche e comuniste, a favore di un mondo positivistico e tecnocratico, segnato dal primato dell’utile e dalla logica totalizzante dei consumi.
Come esito della rivoluzione industriale in Italia, afferma Pasolini nella sua intervista, “il Vaticano non ha più alle spalle questa enorme massa di contadini cattolici. Le chiese sono vuote, i seminari sono vuoti, se lei viene a Roma non vede più file di seminaristi che camminano per la città… E anche i marxisti sono stati cambiati antropologicamente dalla rivoluzione consumistica perché vivono in altro modo, in un’altra qualità di vita, in altri modelli culturali e sono stati cambiati anche sociologicamente”. Un cambiamento che mantiene le differenze economiche, tra borghesi ed operai, ma toglie quelle culturali. Che svuota di significato la destra neofascista – nessuno crede più a patria-famiglia-esercito – al pari della sinistra. Il risultato è il nuovo potere consumistico che Pasolini considera “un fascismo peggiore di quello classico, perché il clerico-fascismo in realtà non ha trasformato gli italiani, non è entrato dentro di loro. È stato totalitario ma non totalizzante”.
L’intervista pasoliniana, come si è detto, non aggiunge elementi nuovi a ciò che già conoscevamo. Nondimeno la sua analisi, che coglie perfettamente il mondo che viene, sorprende ancora per la sua solitudine: “Tutto quello che ho detto, l’ho detto a titolo personale. Se voi parlerete con altri italiani vi diranno: Quel pazzo di Pasolini”. Si tratta, in realtà, di una lucida follia che trova in Italia il suo precedente in un altro grande diagnostico: Augusto Del Noce. Il grande filosofo torinese già nel 1963, nel suo saggio Appunti sull’irreligione occidentale confluito poi ne Il problema dell’ateismo (1964), coglieva l’avvento della società tecnocratica con accenti decisamente pasoliniani.
In esso, sotto le suggestioni dell’amico Franco Rodano, Del Noce metteva a fuoco le caratteristiche della “società opulenta”. Questa, scriveva, “è una società che accetta tutte le negazioni del marxismo nei riguardi del pensiero contemplativo, della religione e della metafisica: che accetta quindi la riduzione marxista delle idee a strumento di produzione; ma che d’altra parte rifiuta del marxismo gli spetti rivoluzionari-messianici, quindi quel che di religioso rimane dell’idea rivoluzionaria. Sotto questo riguardo rappresenta veramente lo spirito borghese allo stato puro; lo spirito borghese che ha trionfato dei suoi due tradizionali avversari, la religione trascendente e lo spirito rivoluzionario. Si potrebbe arrivare a dire, e documentarlo coi testi del Manifesto: per una singolare eterogenesi dei fini il marxismo ha condotto lo spirito borghese a manifestarsi allo stato puro, ma una volta che ha raggiunto questo, si trova impotente a combatterlo. La società tecnologica segna l’abdicazione del marxismo nei confronti degli inventori dell’organizzazione razionale della società industriale, Saint-Simon e Comte”.
La tesi, assolutamente inedita nel delineare l’attuazione della società tecnocratica mediante la decomposizione del marxismo, doveva portare Del Noce all’incontro ideale con Pasolini. Così, nel 1975, riconosce che nessuno come Pasolini “ha inteso il carattere della contestazione e dei suoi strascichi: ‘Rivoluzione del sì’ a una nuova classe di ‘potere reale’, asservente il potere dei politici che nemmeno si sono accorti della sua realtà, emersa dopo il ’60. Nel senso che l’opera distruttiva che essa continua a compiere è rivolta a togliere gli ostacoli all’instaurazione di questa nuova élite, la più priva di ideali, e per ciò stesso la più oppressiva, di quante ci siano mai state nella storia. Nel riguardo di tale opera, la distinzione tra i giovani ‘neri’ e i giovani ‘rossi’ è del tutto secondaria, com’egli ha ben visto. Ma c’è di più. Ha anche inteso come questo ‘nuovo totalitarismo’ che si avanza rassomigli, più che al comunismo o al nazismo, a un fascismo diventato totalitario, o violentemente totalizzato sotto la maschera della permissività, come egli preferisce dire”.
Del Noce riconosceva, quindi, in Pasolini un diagnostico impagabile della nuova realtà che si andava delineando in Italia. Il suo limite era nel sociologismo, nel ridurre l’opposizione di cui parla a quella tra civiltà contadina e civiltà industriale in modo tale che la sua critica della società industriale appare come il sintomo di una nostalgia, la nostalgia del tempo delle lucciole, dei valori di un mondo arcaico travolto dalla rivoluzione industriale. Donde il suo decadentismo. “Pasolini – scrive Del Noce – mi appare dunque un ‘ribelle incompiuto’. Ha avuto il coraggio di opporsi a quell’orribile dittatura culturale che piuttosto che marxistica (perché certamente non è tale) o neoilluministica chiamerei neolibertina, nel senso che, benché si dia la figura dell’avanguardia, non fa che ripercorrere all’indietro il processo dall’illuminismo al pensiero libertino, cancellando i momenti nuovi e positivi che pur caratterizzano l’illuminismo. Ma perché non ha veramente criticato le ragioni per cui questo fenomeno ha potuto prodursi, è rimasto ancora, per usare un’espressione consueta, un ribelle entro il sistema. Con la conseguenza che le verità che afferma possono sembrare o dei voluti paradossi, o espressioni di un riemergere di un fondo di religione friulana, destinata a scomparire nei nuovi tempi”.
Per poter valorizzare tali verità occorreva separale dal decadentismo pasoliniano. In tal modo, come scriveva Del Noce nel 1985, diviene possibile riconoscere che “c’è un positivo a cui Pasolini giunge attraverso il marxismo, un positivo che deve però essere separato dal suo laicismo. Ed è infine interessante notare come egli incontri il pensiero cattolico a partire dal marxismo, come faccia rientrare la critica marxista nella critica cattolica alla società borghese”. Pasolini, non cattolico e di formazione laica, ritrovava, attraverso il marxismo, un suo cattolicesimo. A fronte del deserto antropologico rimaneva, nonostante tutto, la Chiesa a valorizzare quei valori popolari che il marxismo, sedotto dalla società tecnologica, non era più in grado di promuovere.