A distanza di quasi tremila anni la parola di Omero continua ad affascinare e a sollecitare il nostro interesse. L’articolo di Eva Cantarella apparso alcuni giorni fa sul Corriere fornisce lo spunto per alcune riflessioni. Cantarella tenta di ridare all’Odissea e al suo protagonista (Ulisse, o meglio, con forma più vicina all’originale greco, Odisseo) una sua concretezza nel contesto dello sfondo storico del poema, asserendo che nell’isola di Itaca, patria di Odisseo e meta del suo lungo vagare, “si era consolidata una nuova forma di vita associativa, in cui non esistevano dei sudditi (come nei regni micenei), bensì dei cittadini. In altre parole, la polis”. Propongo qui due considerazioni, interessanti anche ai fini di una lettura più ponderata del poema.



Precisiamo subito, a beneficio del lettore non specialista, che l’Itaca di Odisseo non è una polis, se intendiamo con questo termine una realtà politica caratterizzata dall’attiva partecipazione di liberi cittadini alla vita della comunità. Itaca è un microcosmo composito, in cui residui di un’organizzazione sociale arcaica ed elementi di novità si compenetrano.



La poesia omerica è complessa. Omero (usiamo il nome tradizionale per indicare l’autore, o gli autori, dell’Iliade e dell’Odissea) non ha “inventato” il materiale dei suoi poemi: Omero ha dato una sistemazione artistica di insuperabile bellezza a saghe eroiche e mitologiche che si erano formate e tramandate attraverso i secoli: in qualche caso la loro origine può anche portarci a fasi cronologiche lontane che la linguistica permette di recuperare, osservando analogie (soprattutto linguistiche ma, operando in modo molto cauto, anche culturali) tra mondo greco e altre tradizioni di lingue indoeuropee.



Da circa mezzo secolo la nostra conoscenza delle civiltà che hanno preceduto il formarsi della cultura greca classica si è accresciuta considerevolmente con la decifrazione dei documenti redatti nella cosiddetta scrittura Lineare B: documenti di archivio dei palazzi regali di Creta e del continente ellenico risalenti al secondo millennio a.C. che, pur nel loro carattere scarno (si tratta di liste d’inventario o di brevi annotazioni di carattere burocratico), ci  documentano di prima mano un mondo che ha poco in comune con quello dell’età successiva: l’organizzazione sociale, le istituzioni civili e religiose, in qualche caso le prerogative e gli stessi nomi degli dèi sono diversi. Omero rievoca fatti, eroi, usanze di un mondo in gran parte passato, filtrandoli attraverso la cultura della sua epoca. Nei poemi vi sono aspetti del mondo miceneo, perché questi sono integrati in modo indissolubile nei racconti che Omero rielabora, ma molti fatti peculiari di quell’epoca non sono nemmeno più capiti: la tecnica del combattimento col carro per esempio: gli eroi omerici usano il carro non per combattere, come si faceva nei secoli passati, ma solo per farsi portare sul campo di battaglia e poi scendere.

Composita e stratificata è la lingua (dove varietà dialettali e forme moderne si mescolano con arcaismi, talora in formule fisse di cui probabilmente il poeta nemmeno conosce più il valore), composita è la geografia, che amalgama il reale e l’immaginario, e composito è lo sfondo politico dei suoi poemi. Omero descrive le vicende di un’aristocrazia guerriera alla cui guida vi è un re (basileus), che non è tale per diritto dinastico e non ha potere assoluto rispetto agli altri nobili: il palazzo regale è il centro della vita politica e delle decisioni; ma questa reminiscenza dell’organizzazione micenea è contemperata dalla presenza di un’assemblea di cittadini, che viene convocata in modo occasionale (a Itaca viene convocata da Telemaco a dieci anni di distanza della precedente).

Non vi sono leggi scritte, ma vi è un’amministrazione della giustizia, demandata a giudici che risolvono le controversie dei cittadini in un’atmosfera di animata partecipazione popolare (Il. 18, 496 e ss.); insomma vi è un’organizzazione sociale solida con regole precise. Il rapporto fra il re e i sudditi è un rapporto di leale collaborazione, perché quella del re è anche una figura carismatica: i Feaci avevano il massimo rispetto per il loro re Alcinoo (“comandava tutti i Feaci e il popolo lo ascoltava come un dio” Od. 7, 10-11), e gli itacesi hanno nostalgia e rimpianto del loro amato Odisseo, lontano da ormai venti anni ma sempre atteso. Questo atteggiamento è reciproco: Odisseo tratta i suoi dipendenti in modo amichevole e paterno, e nell’Iliade il re dei Lici Sarpedone richiama il fido Glauco al dovere di essere in prima fila in battaglia, perché il popolo tributa ai capi onore e privilegi, ma i capi hanno il dovere di non lesinare fatica e rischi (Il. 12, 310 ss.).

Vi è un secondo punto. L’Odissea presenta novità interessanti nella concezione dell’etica (e forse questo aspetto è anche più interessante di quello politico). Se la percezione di essere un individuo portatore di diritti e membro attivo di una comunità, quale sarà il cittadino della polis, nell’Odissea è ancora molto sfumata, è più nitida la sensazione che ha l’uomo dell’Odissea di essere almeno in parte artefice del proprio destino. Vi sono eventi che non si possono evitare, quali la malattia, la vecchiaia, la morte, ed eventi che risiedono “sulle ginocchia degli dèi”, ma è vi è anche una sfera di azioni che ricade interamente sotto la responsabilità del singolo e che può determinarne il successo o il disastro. Il singolo può decidere in buona parte della propria vita, senza dare colpa agli dèi. E’ Zeus stesso a ricordarlo non molto dopo l’inizio del poema (1, 32-34): «Ahimè, di quante cose i mortali incolpano gli dèi: dicono infatti che da noi vengono i mali, e invece anche loro con le loro stoltezze hanno disgrazie oltre il destino». La trasgressione contro le usanze e contro gli dèi è fonte di sciagure: lo imparano a loro spese i compagni di Odisseo che consapevolmente hanno mangiato la carne delle mucche appartenenti al Sole, pur essendo stati ammoniti del divieto, e lo imparano i pretendenti di Penelope, che per anni hanno spadroneggiato nella reggia di Odisseo, dilapidando i suoi beni e tramando la morte del figlio Telemaco.

La vendetta di Odisseo è tremenda: subiranno morte e mutilazioni, e insieme a loro anche quanti ne hanno condiviso i disegni: i servi infedeli e le ancelle che hanno trescato coi proci. La scelta del male porta disgrazie, e non vi è remissione, perché la morale dell’Odissea conosce il concetto di responsabilità dell’uomo, ma non quello di perdono, che nella cultura greca subentrerà solo molti secoli dopo. E’ vero che dopo la tremenda vendetta di Odisseo vi sarà la riconciliazione coi parenti dei morti (salvo un gruppetto di irriducibili, votato comunque al disastro): ma non si tratta di perdono, si tratta dell’inevitabile momento di accordo, favorito dagli dèi, tra due parti che possono entrambe vantare motivi di offesa: per evitare in un futuro prossimo un protrarsi di odio e di risentimento, Zeus in persona stabilisce che le offese passate siano cancellate: la parola che usa è éklēsis ‘oblio’, non ‘perdono’: «Ora che Odisseo si è preso vendetta dei pretendenti, che regni per sempre, e noi (dèi) stabiliamo con solenne giuramento l’oblio sull’uccisione di figli e fratelli: che essi siano di nuovo amici come erano prima e vi sia ricchezza e felicità a sufficienza» (24, 486 ss.). Non vi è spazio per il perdono, ma neppure per una spirale di vendette destinata a prolungarsi nel tempo.