Il Natale è il fatto storico che rende possibile ogni autentica esperienza di dialogo fra gli uomini. Il Bambino nella mangiatoia di Betlemme, infatti, definisce un punto di attrattiva e convenienza il cui riconoscimento dischiude a ogni individuo l’esperienza della fraternità. Il Verbo incarnato, quale prova dell’Amore di Dio per ciascuno, rappresenta il paradigma di una visione della storia che strappa il soggetto all’isolamento, liberandolo dal fardello della ricerca senza direzione. Così l’attesa, germogliata lungo i secoli (nella notte di ogni crisi personale), si tramuta, anziché in ambizione eroica, in commozione e corrispondenza, in condivisione di un annuncio.



Che occorra essere desti all’appuntamento con l’infinito fatto persona, si scorge fin in una prosa dei Canti orfici (1913) di Dino Campana, visionaria ma proiettata in una domanda di Grazia: “Si sentiva l’attesa. In un brusio di voci tranquille le voci argentine dei fanciulli dominavano liberamente l’aria. La città riposava nel suo faticoso fervore. Era la vigilia di festa: la vigilia di Natale. […] Guardavo le torri rosse dalle travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte sull’infinito. Era la vigilia di Natale”.



Per questo è legittimo reagire alla paradossale e provocatoria poesia di Giuseppe Ungaretti, Natale, datata 26 dicembre 1916: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade. / Ho tanta / stanchezza / sulle spalle. / Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un /angolo / e dimenticata. / Qui / non si sente / altro / che il caldo buono. / Sto / con le quattro / capriole / di fumo / del focolare”. Proprio l’opposto è il balzo in avanti della coscienza che il Natale dovrebbe destare: il desiderio di tuffarsi, al di là di ogni ragionevole stanchezza o disillusione. Vivere il Natale è avere voglia di domani, per non restare bloccati presso un privato focolare (si veda quindi la Vigilia di Natale di Corrado Govoni: riduzione malinconica e gelida della festa che s’assopisce in rituale).



Se il Figlio di Dio nasce in una stalla, significa che il miracolo, l’irrompere del Mistero come manifestazione di un destino a cui siamo chiamati, non esige una “sede propizia”, un luogo e tempo speciali, per accadere: il valore che trascende la contingente finitezza può sorprenderci ovunque. Da questa modalità di percezione – secondo il giudizio di Dante Isella – sono tramate le più intense poesie di Montale. Cito alcuni versi di Notizie dall’Amiata (1938): “E le gabbie coperte, il focolare / dove i marroni esplodono, le vene / di salnitro e di muffa sono il quadro / dove fra poco romperai. La vita / che t’àffabula è ancora troppo breve / se ti contiene! Schiude la tua icona / il fondo luminoso. Fuori piove”. Il miracolo non richiede circostanze privilegiate: solo la nostra attenzione; e allora, quella vita che, per noia e paura, sembra intollerabile, diventa incandescente, potendosi colmare a ogni istante di una Presenza d’amore.

La fiamma dell’amore, come è stato osservato da Levinas, ha bisogno dell’ossigeno della libertà. È una lezione che non è difficile ricavare dai primi passi del racconto evangelico: con la stella e i pastori, Erode e la strage dei martiri innocenti… L’onnipotenza di Dio si china davanti alla nostra libertà, contemplando l’eventualità di un tragico rigetto: e in questo culmine di fiducia il creato e le creature prendono a brillare di una luce insieme più drammatica ed esaltante. Mai come nella grotta di Betlemme riverbera la minaccia da cui è attraversata la storia: Dio lascia lì il Suo segno, una promessa che può però essere rifiutata.

Etty Hillesum, la giovane ebrea precipitata (e morta) nell’inferno di Auschwitz, nel suo Diario si esprime così: “È la sola cosa che conti: un po’ di Te in me, in ciascuno di noi, mio Dio. Poter contribuire a farTi venire alla luce nei cuori martirizzati degli altri”. La nostra missione sarebbe dunque quella di “partorire” Dio ogni giorno, riscoprendoLo nelle ferite che ci circondano.

Dio, per voce del suo Figlio, si presenta quale inesauribile fonte d’amore, palpitante in spirito e verità (Gv 4,24). In quest’ottica, la povertà del fratello (la mia stessa povertà) è un’occasione di bene, è un invito che sollecita aiuto, è un incitamento di Dio (“Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, Mt 25, 40). Un sonetto giovanile di Saba, incluso nel Canzoniere del 1921 ma poi espunto dall’edizione definitiva della raccolta, si intitola Nella notte di Natale. Se ne rileggano – dopo il v. 6: “forse il bene invocato oggi m’aspetta” – le terzine conclusive: “Notte fredda e stellata di Natale, / sai tu dirmi la fonte onde zampilla / improvvisa la mia speranza buona? / È forse il sogno di Gesù che brilla / nell’anima dolente ed immortale / del giovane che ama, che perdona?”. Il presentimento della notte di Betlemme è talmente radicato nel cuore dell’uomo, che da ciò dipende ogni speranza buona. Ma ne deriva anche l’opportunità, per l’uomo, di censurare questa sete di infinito, come documentano varie poesie di Guido Gozzano (da La via del rifugio): “A me che vivo senza fedi, senza / l’immaginosa favola d’un Dio… / […] / l’implacabilità dell’Universo / ride d’un riso che mi fa paura”.

Invece l’uomo si realizza nel condividere: l’avete fatto a me. Questo “a me” è il segreto dell’identità più vera e profonda verso cui siamo in cammino. Il filosofo Jacques De Coulon (del Collège Saint-Michel di Friburgo) si domanda: simile modalità rigenerante di rispondere agli altri, e alla realtà, non ha come conseguenza la nascita di Dio, tutti i giorni?

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