Nell’Iliade Omero descrive la discesa sulla terra di Apollo a vendicare l’offesa fatta al suo sacerdote Crise con una similitudine efficace: “Ed ei simile a scura notte giù venia”. La punizione è una pestilenza nel campo greco. Ma anche nel mondo moderno, quanti, di fronte alla natura sconvolta, alle epidemie, alle inondazioni, non pensano senza quasi accorgersi a una potenza oscura che si abbatte inesorabile come un castigo meritato?
La paura o l’attesa che Dio intervenga nella storia degli uomini è molto lunga, ha le sue radici nella produzione letteraria e artistica più antica. Nei testi degli abitanti della Mesopotamia, dell’Egitto, della Grecia, di Roma se ne trova l’eco, come ha fatto notare Benedetto XVI all’inizio delle sue catechesi sulla preghiera.
Nella Bibbia la preghiera che Dio faccia risplendere il suo volto costituisce il cuore della relazione tra un popolo ostinato, riottoso, ma pur sempre dominato dalla consapevolezza dell’alleanza e un Dio pronto a perdonare l’infedeltà e a restituire la grazia della sua presenza. Il testo di Isaia che la liturgia legge nella prima domenica di Avvento lo fa intendere con chiarezza:
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te,
abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi! L’attesa di tutti gli uomini, anche quelli in apparenza più autosufficienti, è espressa in questo versetto in modo accorato e dolce. È infatti l’attesa di un bene che non si sa produrre da soli e che si aspetta dall’alto.
Rorate caeli desuper et nubes pluant Iustum: così la liturgia fa eco all’attesa del popolo di Israele, nel canto gregoriano che accompagna le settimane che separano dal Natale. Così Virgilio nella quarta bucolica prefigura, secondo i Padri della Chiesa, la venuta di un misterioso bimbo, che essi identificavano con il Salvatore:
iam nova progenies caelo demittitur alto…
et durae quercus sudabunt roscida mella.
(già la novella prole discende dall’alto cielo…
e le dure querce stilleranno rugiada di miele).
Abbiamo tre settimane per svegliarci e per cercare i segni di una Presenza che non si è più allontanata dalla storia degli uomini, da quando è discesa nel grembo della Vergine ed è apparsa nel mondo. Quasi un mese per cercarla e invocarla, anche con l’aiuto della poesia: “non è cosa in terra / che ti somigli”.