Le ricorrenze spingono sempre a ricordare i tempi passati e a misurarli con quelli presenti. Non è soltanto la nostalgia per le cose che non ci sono più, ma un criterio di misura di ciò che accade attorno a te confrontato con le esperienze che hai fatto.
Era il Natale del 1943. Eravamo fuggiti in una notte di aprile verso le montagne per sottrarci ai bombardamenti che avevano colpito duramente la nostra città. Stavamo tutti stipati in una casa di campagna con i miei cugini, i miei zii e la mia nonna paterna, e passavamo quasi tutto il giorno in un palmento di pietra lavica, coperti da materassi e cuscini mentre sopra di noi volavano bombe e granate dalle portaerei americane, ancorate nel golfo di Catania, verso le colline dove ancora resistevano gruppi di soldati tedeschi. Si viveva tutto il giorno con la paura di poter essere colpiti, così a metà strada come eravamo tra i due opposti fronti, e tuttavia lo stare insieme con i cugini, le mamme e la nonna ci faceva vivere una gioiosa esperienza di comunità, e trovavamo sempre l’occasione per fare scherzi e burle, probabilmente inconsapevoli della realtà dei pericoli che correvamo. La notte prima del Natale, mio zio, padre dei miei cugini, tornò da una escursione nelle campagne circostanti portando alcuni pezzi di un agnello macellato clandestinamente. Mangiavamo da molti giorni carrube e granaglie, e quell’agnello sembrò a tutti un dono meraviglioso. Ricordo mio zio con un gran cappotto nero che appariva sulla porta del palmento con questi pezzi di agnello in mano e il coro gioioso che subito si dispiegò. Venne arrostito sulla legna alla meno peggio, e tuttavia fu una delle cene più belle della mia vita.
La guerra è per certi aspetti il compimento estremo di una crisi che spinge gli uomini ad uccidersi reciprocamente con ferocia e crudeltà. Tuttavia quel Natale del ’43 è rimasto nella mia memoria come uno dei momenti in cui mi sono sentito accolto amorevolmente da tutte le persone che si trovavano con me. Ho provato una grande gioia e una grande speranza.
Io credo che l’esperienza della guerra, sia pure vissuta da un bambino di sette anni, metta in contatto quasi immediato con tutti gli orrori che accompagnano la nostra condizione umana nelle varie epoche. Chi non ha fatto l’esperienza della guerra ha sicuramente una percezione relativamente più lieve della paura della morte. La guerra è il precipitare estremo della crisi proprio perché mette in scena la violenza senza ragione e ti lascia impotente nell’attesa di ciò che può accadere.
Ho vissuto con intensa partecipazione emotiva i Natali degli anni settanta, quando sembrava che tutto il mondo si trovasse alla soglia di un grande cambiamento epocale e che, sia pure tra lotte e dolori, stesse nascendo un mondo nuovo. Ero già sposato, con tre figli, e la mia casa veniva scelta dai miei genitori come luogo di raccolta di tutti i parenti. La cosa straordinaria che ho sperimentato in quei tempi era il rapporto forte e intenso tra le diverse generazioni. I nipoti amavano i nonni, e i nonni apparivano agli occhi di noi figli e dei nostri amici come i testimoni di una continuità destinata a proiettarsi nel futuro, capace di garantire a tutti la possibilità di intrecciare le difficoltà presenti con i sogni e le fantasie di anni sempre migliori.
Nel 1973, tuttavia, il mondo fu scosso improvvisamente da una grande crisi petrolifera e fu imposto a tutti i cittadini il divieto di usare l’automobile nei giorni festivi. Fu in un certo senso la prima percezione di massa dei limiti del progresso infinito e delle “magnifiche sorti” dell’economia. Tutti andavamo in bicicletta e la città, nonostante la crisi, viveva dei momenti di gioiosa amicizia. Persone che non si vedevano da mesi si incontravano nelle piazze, e i ragazzini giocavano senza il timore di essere investiti. Sebbene si cominciasse a profilare l’idea di limitare i consumi e ispirarsi ad una nuova austerità, ricordo bene che nessuno degli amici e dei compagni di quel periodo percepiva la crisi come il sintomo di mutamenti epocali che avrebbero lentamente modificato il nostro modo di vivere e pensare. La crisi era vissuta anzi come un’occasione per rendere concreta la possibilità di un cambiamento che bloccasse l’inarrestabile corsa verso il consumo di tutto ciò che si offriva al nostro sguardo.
Un riscontro immediato di questo mutamento di prospettiva era dato proprio dal mondo dei bambini che in quel periodo vivevano il rapporto con i regali e con i giocattoli come un dono inaspettato da custodire e conservare. Sembrerà un ricordo banale ma il mondo dei bambini era popolato da bambole, orsacchiotti e da pochissimi oggetti “tecnologicamente avanzati”. Sebbene le tavole imbandite per la notte di Natale e di Capodanno fossero ancora ricche di panettoni e cotechini, la maggior parte delle famiglie trascorrevano i giorni di festa insieme, felici di contribuire con cibi e leccornie preparati in casa. Le grandi pizze siciliane preparate dai nonni erano il massimo della prelibatezza festiva.
Negli anni seguenti, nonostante il lento modificarsi di tutto il mondo circostante, le tradizioni festive venivano rispettate secondo uno schema che sembrava esprimere stabilità e benessere duraturi. Le crisi si succedevano senza produrre sensibili mutamenti del tono dell’umore collettivo che, nonostante le difficoltà che si cominciavano a manifestare specie nella ricerca di un lavoro per le nuove generazioni, si manteneva fiduciosamente aperto verso il futuro. Ciascuno di noi in fondo pensava di poter assicurare ai propri figli un miglioramento rispetto alla propria storia familiare.
Ancora attorno agli anni ottanta, sebbene fosse già cominciato un colossale indebitamento dello Stato, la prospettiva che la vita avrebbe offerto ai giovani nuove chance e nuovi orizzonti non era messa in dubbio da nessuno. Passeggiando per i viali del parco cittadino immaginavo che i miei figli crescendo si sarebbero affermati e sarebbero rimasti vicino a me per il resto dei miei giorni. L’idea della trasmissione del testimone era un punto fermo dello sguardo che ciascuno di noi aveva verso il futuro. Oggi due dei miei tre figli sono andati lontano dall’isola, che non offre più alcuna prospettiva e ci vediamo soltanto per le feste comandate.
Intorno agli anni novanta la caduta del muro di Berlino segnò un momento di euforia collettiva, e illustri pensatori affermarono con grande sicurezza che l’intero pianeta si apprestava a vivere una nuova epoca di pace e serenità. L’entrata dell’euro, che costò parecchi sacrifici economici ai cittadini italiani, fu largamente ricompensata da una idea di nuova fraternità fra i popoli europei che avrebbe aperto la strada ad una nuova visione del progresso, più equa e più solidale. Lentamente, però, subentrò nello spirito di tutti il senso di una delusione fatale, insieme alla percezione che qualcosa non funzionava più nel rapporto fra istituzioni e cittadini, e che stava cominciando un’epoca caratterizzata da inimicizia ed esclusione reciproca.
Dal ’94 in poi è penetrato nell’animo collettivo un forte sentimento di rancore e di invidia che ha prodotto frantumazione sociale, disgregazione e disfacimento di ogni spirito di gruppo capace di dar spazio al manifestarsi del senso dell’amicizia e del gusto dello stare insieme.
Mentre la scena mondiale seguiva i sussulti di guerre regionali senza comprensibili ragioni, e l’11 settembre del 2001 inaugurava il tempo degli attacchi terroristici e della paura del nemico invisibile, impersonato sempre più da ogni estraneo o straniero che fosse, si veniva realizzando un’enorme privatizzazione della vita umana. Ciascun individuo rompeva tutti i legami esterni con la sfera pubblica e sociale per rinchiudersi nella propria esistenza spesso addirittura solitaria. La stessa vita di coppia, che sembrava l’ultimo residuo di un’alleanza possibile fra esseri umani, veniva progressivamente precarizzata fino a quanto accade all’attuale generazione che non sembra avere più alcun desiderio di vivere con un partner e di avere dei figli.
Tra il 2007 e il 2008 esplode la grande crisi economica che stiamo oggi drammaticamente vivendo. Gli aspetti economici di questa crisi sono giornalmente testimoniati dai notiziari che continuamente aggiornano le nostre informazioni sui crolli di borsa e sulla crescita del debito pubblico. Persino le persone meno acculturate si chiedono affannosamente come finirà, e lentamente entra nel senso comune uno spirito depressivo di rassegnazione e rinuncia a lottare.
Ciò che sento profondamente mutato rispetto a tutte le altre esperienze di crisi, compresa la guerra da cui ho preso le mosse, è proprio questo umore collettivo che esprime in ogni circostanza apatia e sconforto. Ciò che sento attorno a me è infatti l’idea che nessuno è più in grado di governare la propria vita verso un progetto duraturo, e che nessuno, allo stesso tempo, si fida più degli altri come compagni di una stessa avventura.
Questi aspetti per così dire “umorali” della crisi non sono purtroppo presenti nel dibattito pubblico, che continua aridamente a proporci numeri e percentuali. E invece sono convinto che l’aspetto più drammatico della crisi che stiamo attraversando è questo diffuso senso di smarrimento, questa impossibilità di rompere il cerchio dell’isolamento e di unirsi ad altre persone per costruire insieme, qui ed ora, qualcosa che possa produrre un risultato positivo per tutti. Più aumenta il senso della crisi e più gli individui si rinchiudono nella propria solitudine a macerare amarezza e delusione senza trovare la forza di reagire. Nessuno dei governanti del nostro Paese, dell’Europa e del mondo si rende conto che una così massiccia deprivazione del governo della propria vita può produrre proteste insensate e violenze improvvise non controllabili, giacché l’esperienza storica insegna che gli uomini possono anche accettare riduzioni delle proprie risorse economiche ma non riescono a gestire il senso di annichilimento della propria persona.
Mio padre mi raccontava sempre com’era stata devastante in Europa la crisi degli anni trenta, e mi ha lasciato in ricordo una banconota di mille marchi che il nonno aveva acquistato, convinto di assicurare una ricchezza ai propri figli. Come tutti sanno, il fallimento del marco tedesco produsse una catastrofe umana di dimensioni inaudite, e per acquistare un chilo di pane era necessaria una valigia piena di marchi. Conservo quella banconota e cerco di immaginare cosa provò la famiglia di mio padre quando tutti i risparmi del nonno si ridussero a pura carta da macero. La risposta a quella crisi, come ogni tanto qualcuno ricorda, non fu economica ma psicologica e politica e aprì le porte in Italia e in Germania al nazismo e al fascismo che, come ha scritto Wilhelm Reich, furono un modo perverso di uscire collettivamente dalla depressione di massa.
Mentre la crisi degli anni trenta infiammava l’Europa fino all’esplosione di un conflitto mortale, in altri Paesi dell’Occidente nasceva il New Deal che resta, fino a prova contraria, la migliore esperienza di uscita dalla crisi attraverso la valorizzazione della vita e delle capacità di tutti gli individui che si trovano allo stremo. In America si arrivò al paradosso di retribuire con uno stipendio statale contadini che facevano al mattino buche in terra per ricoprirle alla sera. Attività economicamente inutili, almeno in apparenza, ma socialmente capaci di rimotivare gli uomini e le donne a vivere e lavorare.
Questo racconto, che è diventato oramai un emblema delle politiche economiche keynesiane, mostra quanto sia rilevante per uscire dalla crisi l’umore collettivo di un popolo. Credo infatti che quando si attraversa una fase di crollo dell’economia come questa non ci sono ricette economiche per venirne fuori ma occorre un grande sforzo di rimotivazione collettiva che rimetta in campo la fiducia verso gli altri come risorsa fondamentale. Per vincere la crisi ci vuole anche più amicizia.