Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Cosi, con sensibilità acuta e precoce,  scriveva a 14 anni Antonia Pozzi, poetessa degli anni trenta, morta suicida a 26 anni per overdose di barbiturici.



Negli Stati Uniti una persona muore per suicidio ogni diciassette minuti, in Italia ogni 3 tre ore: poco più di 1500 suicidi al giorno nel mondo (dato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 2010).

Negli ultimi 50 anni l’incidenza del suicidio è aumentata del 60%, diventando la terza causa di morte per gli adolescenti ed i giovani adulti. Fino a poche decine di anni fa il gruppo più a rischio era rappresentato dagli uomini anziani, oggi sono i giovani ad avere il più alto indice di suicidio in molti Paesi, sia industrializzati che meno sviluppati.



Ci sono suicidi che nascono nel contesto di esperienze psicopatologiche, ci sono suicidi che nascono dall’esercizio della libertà. O del suo travisamento.

E ci sono suicidi più nascosti, che non si presentano come finalizzata volontà di morte, bensì, sintomaticamente, con la maschera di comportamenti problematici, apparentemente ascrivibili a uno sconfinato vitalismo o alla ricerca, seppure effimera, del piacere, dell’ebbrezza del rischio, della felicità di un momento.

Qualche anno addietro Benasayag e Schmit, due psicoanalisti che vivono e lavorano in Francia nell’ambito della età evolutiva, hanno posto sotto osservazione i servizi di consulenza psicologica e psichiatrica di quel Paese.



Il dato emergente dall’indagine era la prevalenza di persone il cui disagio lamentato non aveva una reale origine psicologica, ma rifletteva, piuttosto, la tristezza diffusa che caratterizza la società contemporanea dell’occidente del mondo, percorsa da un sentimento permanente di generalizzata insicurezza (L’epoca delle passioni tristi, 2004): quando il futuro si fa oscuro e si mostra solo come incertezza, precarietà, instabilità, inquietudine, allora le iniziative si spengono, le speranze vacillano, la demotivazione cresce, e l’energia vitale, non più investita in idee-progetti-azioni, implode.  

Oggi, nel tempo della post-modernità, la tristezza esistenziale, di per sé cifra individuale, ha traguardato una dimensione collettiva, diffusa e parcellizzata. Particolarmente vulnerati dalla diffusa tristezza, le persone più giovani manifestano un disagio, che è sotto gli occhi di tutti e che si ripropone in forme molteplici e cangianti, dietro le quali, tuttavia, è possibile intravedere un denominatore condiviso.

In un articolo di qualche tempo fa, Marco Lodoli, osservatore attento dei problemi del mondo giovanile e della scuola, raccontava di quell’insegnante delle superiori che, entrato in classe, voleva interrogare un’alunna su un brano letterario esposto nella lezione precedente, ma l’allieva rifiutava. E non perché non avesse studiato o perché non ricordasse la lezione, ma perché non riusciva a tollerare quel minimo di tensione emotiva implicato anche nella più distesa e amichevole delle interrogazioni: “Non voglio soffrire neanche un minuto!”, si giustificò con il professore.

La fisiologia insegna che quando il patimento fisico diventa troppo intenso e troppo lungo, l’organismo comincia a produrre sostanze che tendono a contrastarlo, bloccando i recettori nervosi e innalzando la soglia di tolleranza al dolore. Allo stesso modo, a fronte della serpeggiante tristezza, viene ricercata la distanza dalle emozioni negative. Il volto di questo distanziamento è paradossalmente quello della fuga maniacale, dello star lontano il più possibile dal sentire e dallo stare a contatto con la sofferenza,  in una dimensione di cronica sovraeccitazione. 

Qualche volta ci si ferma all’inflazione dei contatti virtuali (i cento, mille amici di Facebook o Twitter) o allo stordimento in mondo sonoro permanente. Altre volte non basta, e si ricorre alle sensazioni forti, proprie di tutti i comportamenti che mettono a rischio la vita stessa, attraverso dipendenze vecchie (alcol, droghe) e nuove (gioco d’azzardo patologico, sex addiction), oppure con la guida spericolata. O ancora, secondo le tendenze più recenti, attraverso il balconing (saltare da un balcone o da una finestra posti a un piano elevato direttamente all’interno di una piscina o di un altro balcone mentre il salto viene ripreso per poi essere caricato su siti web di filmati), l’eyeballing (versarsi vodka o rum o assenzio negli occhi traguardando una distorsione percettiva), il binge drinking (bere non meno di cinque alcolici diversi in due ore e a digiuno) o lo choking (autocompressione della carotide per bloccare per alcuni secondi l’afflusso di sangue al cervello e raggiungere così una condizione di euforia). Gli adulti si scandalizzano, discutono, analizzano, o si spaventano, ma anche loro sono nell’ingranaggio: anche loro si difendono dalla tristezza, agendo comportamenti di evitamento, di distrazione o di stordimento. 

Sembra davvero così difficile traguardare la “sovranità sul male dell’umana libertà” (Card. Angelo Scola, nel Pontificale solenne per la Festa della Dedicazione della cattedrale di Milano nell’ottobre scorso). Se così fosse, allora non resterebbe che arrendersi al più cupo pessimismo, come nella recente rilettura del Faust fatta dal regista Sokurov (Leone d’oro a Venezia 2011), che rinuncia all’irreale panteismo di Goethe per approdare al più sordido cinismo (“il bene non esiste, ma il male sì”).

In questo contesto, la crisi può ben prestarsi ad essere lo scenario della parabola agonica e crepuscolare della civiltà dell’Occidente (terra del tramonto). Oppure può rappresentare la circostanza che rimette in moto il desiderio di felicità e l’agire per il bene.

Del resto, fu proprio la devastante crisi economica e sociale della Francia di fine settecento, che diede inizio a un movimento di idee e di azioni che hanno cambiato il mondo in maniera sensibile.

E non era la prima volta. Nei primi secoli dell’era cristiana, nell’epoca segnata da una strutturale precarietà, con un’elevatissima mortalità infantile e un’aspettativa di vita di 30 anni per le donne e di 45 per gli uomini, grande impulso alla diffusione del Cristianesimo è stato dato da quelle ricorrenti grandi epidemie (peste, vaiolo, colera) che, sterminando milioni di persone, costituivano momenti acuti di “crisi”. E non, come sostengono alcuni intellettuali agnostici, per la mera promessa di una “vita eterna” a consolazione della vita presente così precaria e dolorosa, bensì per l’operosità che procede dalla fede nel Risorto. Gesù aveva tracciato la strada: “ama chi ti è prossimo come te stesso!”. E così si faceva. Non più allontanati dal consorzio civile e abbandonati a se stessi, gli infetti venivano soccorsi e assistiti con i tre principi che, di norma, fondano la cura di sé: alimentazione, idratazione e igiene. Accorgimenti questi che, da soli, in un epoca in cui gli antimicrobici erano ancora di là da venire, erano in grado di abbattere del 25-30 per cento la mortalità.

Eppure, si stenta a raccogliere la sfida rappresentata dalla crisi, preferendo scelte di vita sempre più fragili. Senza entrare nel merito del giudizio sulla vita e sulla morte di un uomo, che è sempre non proporzionato, o inopportuno, o irrispettoso, non può essere taciuta l’amarezza esperita in occasione della morte per “suicidio assistito” di Lucio Magri in una clinica elvetica, per l’eco risuonante, e dissonante, nei media. Il messaggio che ha commentato un gesto estremo di solitudine e di perduta speranza a molti è apparso fuorviante. Fuorviante per l’equivoca definizione di libertà, fuorviante per la problematica interpretazione “politica”, fuorviante per l’incondivisibile stravolgimento dell’agire medico, fuorviante per aver letto come affermazione e realizzazione di sé il fallimento “della politica, della cultura, della società, dell’assistenza e, forse anche – ed è la cosa più dura da ammettere – dell’amicizia e degli affetti” (dalla Nota del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore del 30 novembre 2011). 

In un periodo di crisi profonda, che non è solo economica e sociale, ma è anche politica e morale, la Speranza, ultima dea, non va uccisa, bensì custodita e alimentata. Per cambiare. Per non morire suicidi a nostro modo, per non dire, come cantava Tenco, che “un giorno dopo l’altro la vita se ne ve/ e la speranza ormai è un’abitudine”.