Sul Corriere della Sera del 13 gennaio compariva un appello di Tony Blair e del principe Ghazi di Giordania per la celebrazione della prima settimana mondiale della World Interfaith Harmony Week, una settimana – la prima di febbraio – in cui tutti sono invitati a fare qualche gesto di armonia verso credenti di altre religioni (inclusi i credenti nella non religione).



Forse incomincio a essere troppo vecchio per snobbare chi prova a fare qualcosa, soprattutto se concreto, sapendo bene quanto costa muoversi e muovere tanto più per un ideale necessario, nobile, e probabilmente perdente. Il filosofo americano Royce le chiamava le “cause perse” e sosteneva fossero le uniche per cui valga davvero la pena battersi, perché sono le uniche che ci mettono in rapporto diretto con Dio. Non è un argomento che mi abbia mai convinto del tutto eccetto per ciò che riguarda il Torino calcio, ma di certo la causa è buona (l’accettazione dell’altro che “non può essere affidata alle élites religiose o accademiche”) e il problema è reale (“il mondo è attraversato da conflitti legati alle religioni o interne a esse”).



Tuttavia, la spiegazione data dall’articolo del Corriere fa riflettere sul tipo di ragionamento sulla base del quale l’appello è formulato. C’è innanzi tutto un fattore nuovo e positivo che gli autori mettono in luce. È la prima volta che una risoluzione delle Nazioni Unite “nomina esplicitamente Dio” ammettendo così che la religione deve essere accettata come elemento decisivo della vita sociale e politica, abolendo la finta esclusione vetero-illuminista. Non solo, gli estensori dell’articolo fanno appello alla religione stessa per giungere alla tolleranza e all’accettazione dell’altro. Ciò che l’articolo sostiene è che ciascuno può e deve trovare nei propri stessi fondamenti “spirituali, teologici e scritturali” la via al rispetto dell’altro e delle differenze di credo. È un passo realista che non vede più nella religione solo la causa dello scontro ma anche la via della pace.



L’impianto argomentativo però reintroduce, come si suol dire, dalla finestra ciò che scaccia dalla porta. È vero, si ammette la religione come fattore positivo, ma le si chiede di attestarsi su un comandamento base che valga per tutte – l’amore di Dio e del prossimo – e su un atteggiamento etico comune – la tolleranza. Forse occorre un ulteriore passo di realismo. Non solo la religione è importante per molte persone e in essa vi sono sempre i germi della pace in nome di Dio; rientra nelle caratteristiche essenziali di ogni religione (inclusa la non religione) la pretesa naturale a conoscere la verità e all’universalità di tale verità. Una religione che non pensasse di essere “vera” smetterebbe di essere seguita. Perché la ragione dell’uomo cerca strutturalmente una verità totale, anche quando non la trova, tant’è che spesso spaccia per totali verità che non sono tali, come tutti gli idoli che sono alla base delle grandi ideologie della storia e delle piccole ideologie della vita privata.
 

L’operazione di Blair amplia i confini del campo in cui la religione può muoversi ma non la concezione essenziale, ritenedo che essa debba ritrarsi un poco, rinunciare a questa sua pretesa, per diventare tollerante. Salvo poi scoprire che la tolleranza così intesa diventa a sua volta una verità totale, che crea da un lato il rifiuto da parte di chi la considera un’eredità di una sola religione (il cristianesimo) e dall’altro gli intolleranti della tolleranza, sull’esempio di Locke che invitava alla tolleranza universale salvo che per… i cattolici in questo caso (ma c’è sempre un “salvo che” per ogni caso). Il problema è che per essere tolleranti davvero bisogna almeno pensare di conoscere la verità (e lo sanno e lo fanno anche quelli che professano la verità del “non c’è nessuna verità”), cioè capire che l’altro ha sempre un frammento del vero e che lo si può riconoscere perché si sa com’è fatto.

Se la ragione è inevitabile sete di verità universale, diventa più interessante la seconda parte dell’articolo. Gli autori invitano a compiere un gesto concreto verso un credente di un’altra religione. Messa nei termini in cui abbiamo detto, l’invito dovrebbe essere più o meno tradotto così: “io ti invito a cena lasciando perdere la mia pretesa alla verità di ciò in cui credo e per cui vivo”, come a dire “io ti invito a cena dimenticando per oggi di essere me stesso e facendo finta di non pensare che sia del tutto vero ciò che credo vero”. Davvero vorremmo venire ospitati in questo modo?

Ho una proposta alternativa per Blair e il principe giordano: riconoscendo che la ragione e la religione pretendono (giustamente o ingiustamente) di conoscere la verità, non potremmo fare la settimana dove ciascuno fa un gesto verso un credente di un’altra religione per dimostrargli che la propria fede è la verità per tutti? La settimana del World Interfaith Show and Teach: mostrami la bellezza della tua fede per cui essa dovrebbe essere riconosciuta da tutti. Resterebbe una causa persa, ma non si mortificherebbe la ragione di chi crede (anche di crede alla non credenza).
Il gesto per l’armonia lo farò, ma dall’anno prossimo si potrebbe fare un passo in avanti, almeno sulla ragione. Sarebbe bello discuterne, anche con Blair e il principe Ghazi.