Ci sono molte affermazioni nell’articolo di Pietro Barcellona che sono ampiamente condivisibili, tanto più che coinvolgono l’essenziale del discorso e le stesse conclusioni. Tuttavia l’analisi che conduce dalle premesse alle conseguenze può essere diversa e forse più inquietante: vale la pena di precisarla.

È vero che per l’uomo contemporaneo, cioè per il soggetto immerso nella città occidentale, le categorie spazio-temporali sono saltate. Ed è ancora più vero quanto sottolinea Pietro Barcellona quando, in sintonia con i documenti episcopali, parla di un mutamento antropologico. Nella misura in cui l’unico tempo nel quale ci ritroviamo a vivere è una sorta di eterno presente e lo spazio ha perso ogni consistenza, per declinarsi – interamente o quasi – nella dimensione virtuale, finiamo inevitabilmente con il vivere in un contesto radicalmente diverso da quello che ha caratterizzato l’esistenza di quanti ci hanno preceduto. Si tratta, certamente, di un contesto a rischio, dove i rapporti umani sono esposti alla triste possibilità di scolorire e farsi evanescenti.



Ma il motore che alimenta il contesto contemporaneo risiede solo in parte nelle autostrade informatiche e nell’universo di internet. L’abolizione dello spazio e del tempo sono preesistenti all’invasione informatica e questa non ha fatto che renderli evidenti. L’uno e l’altro sono il prodotto di una lettura moderna della realtà dove il passato – tanto quello personale e famigliare quanto quello collettivo e sociale – hanno perso spessore e non hanno che un puro valore di archivio: al massimo sono una galleria di curiosità, buona per allestire spazi museali in nome del “come eravamo” o del come ci si rappresentava la realtà. Nella modernità il presente si autoproduce a colpi di innovazioni tecnologiche e collassi di modelli produttivi (è questo il primato del Capitale). E’ proprio per questo che il tempo perde ogni dimensione di “lunga durata” e finisce per avere un valore strategicamente decisivo solo in quanto coincide con il “timing” delle agende politiche e delle decisioni aziendali. L’individuo si affaccia alle porte della società dei consumi e si accalca dinanzi agli schermi dell’universo dell’apparire quando è già stato de-umanizzato da una lettura della realtà che ne ha messo ai margini la memoria personale, famigliare, nazionale riducendole tutte ad altrettante schede di archivio, ininfluenti nel presente se non come vincoli residuali, rigidità da superare.



La società dei consumi e lo stesso universo virtuale non avrebbero affatto il peso che hanno se non collaborassero e risultassero funzionali nell’alimentare il mito moderno di una soggettività liberata dal peso di contesti e tradizioni, per la quale ogni vincolo (fisico-materiale, ma anche socio-culturale o etico-morale) può tranquillamente essere eluso e sorpassato e con esso il passato che lo rappresenta.

Tanto l’universo del consumo quanto quello dell’immagine si rivelano letali quando si appoggiano ed alimentano consapevolmente questo mito di una soggettività completamente autoreferenziale, senza legami né vincoli, ricca delle mille opportunità costantemente percorribili e sempre rinnovabili. Il vero mercato è quello dei beni che traducono dei sogni, dove ogni merce si accompagna ad un ambiente che ricrea, una leggerezza dell’essere che propone, una soggettività che costruisce, magari anche solo per gioco e consapevole finzione, ma non per questo meno efficace nel restituire quel profumo delle mille opportunità costantemente aperte, tali da consentire di sfuggire ai mille vincoli che, benché ignorati, continuano ad esistere.



La scomparsa della vita interiore indicata da Pietro Barcellona, coincide allora non solo con la perdita del contesto spazio-temporale, ma anche e soprattutto con la progressiva elisione di una memoria personale capace di veicolare le domande fondamentali dell’io. Una tale memoria, che non si riduce alle foto dell’album di famiglia ma ha la pretesa di dire “ciò da cui si viene” e quindi “ciò che si è”, è pervicacemente e reiteratamente messa ai margini nell’antropologia dell’uomo contemporaneo. Il soggetto può riuscire a pensarsi come aperto a scelte eternamente reversibili – vero e proprio mito della società contemporanea – non solo quando il mercato gli propone nuovi modelli di quotidianità attraverso un nuovo range di consumi e l’universo dell’immaginario televisivo ne intona il canto, ma anche e soprattutto quando ritiene di poter mettere tra parentesi ciò che esso stesso è nel mondo, quando non ha più nessuna percezione di ciò che lo sostanzia nella sua concreta e carnale identità, cioè quando, precipitando nell’illusione autofondativa, ha perso di vista il proprio “destino”. Solo una volta liquidata la dura consistenza del proprio essere la sua vita interiore può apparirgli insostenibilmente leggera, fino a scomparire. Solo a condizione della scomparsa di questa coercitività, costituita dal dove si viene e da ciò che si è chiamati a realizzare (la propria vocazione), il soggetto può liquidare la propria vita interiore, facendola coincidere con un eterno sogno ad occhi aperti: quello delle mille possibilità sempre percorribili e sempre da “giocare”.

La “sonnolenza ottusa”, della quale parla a ragione Pietro Barcellona, non combacia solo con l’ignoranza delle tracce materiali presenti nel territorio, ma anche e soprattutto coincide con l’illusione di una individualità costantemente ricostruibile e ricomponibile, in una sorta di moratoria culturale ed etica, dove nulla è per sempre, ma tutto è relativo, o relativizzabile. Dove ogni memoria capace di dire da dove si viene, ogni identità capace di restituire lo spessore del proprio essere, sono interpretate più come vincoli da controllare e reprimere che come risorse, criteri guida da mantenere.

L’invito di Barcellona è quindi tutto da sottoscrivere: resistere e battersi per la ricerca di un nuovo spazio umano, “ridare senso al proprio bisogno di affetti e di comunità”. Ma un tale obiettivo implica proprio il recuperare tanto i primi quanto la seconda come il cuore del proprio essere, accettandone il legame che propongono, la dipendenza che implicano. Una simile operazione, per non avvenire su di un piano di pura remissione e di vera e propria “fuga dalla libertà”, implica un recupero di ciò che si è, cioè della memoria del proprio essere. Ma una tale memoria può realmente costituire un evento liberatorio solo se transita attraverso la prima e la più imprescindibile delle dipendenze: quella da un padre che in qualche modo ci ha custodito e ci ha fatti crescere. Non è a caso se le religioni monoteiste hanno alimentato e tenuto per mano intere civilizzazioni, coltivandone l’affetto per il Padre e ancora oggi continuano a farlo. E non è nemmeno a caso se le moderne società secolarizzate, cioè strutturalmente definite a partire da una consistenza identitaria laicamente autofondata, possono riuscire a mantenere la loro coesione interna e la loro forza morale solo riferendosi costantemente al loro principio fondatore, cioè alla memoria di ciò a cui si sono votate ad essere. Un individuo senza padre ed una società senza memoria sono il vero motore per ogni deriva possibile.