Ci sono scrittori che raccolgono i frutti (pochi e “spiaccicati” dalla critica) del loro lavoro ancora in vita. Altri sorrideranno in qualche infinità spaziale nel vedere che finalmente qualcuno ha cominciato a comprenderne qualche granello. Questo è successo con John Fante, scrittore italoamericano riscoperto da C. Bukowski sul finire degli anni ottanta di cui Einaudi ha pubblicato da poco l’ultimo romanzo ritrovato Bravo, Burro!.
Ma il vero capolavoro di Fante è Aspetta primavera Bandini, primo della fortuna serie. In questo racconto breve è narrata la storia di una famiglia abruzzese trapiantata in Colorado in cerca di fortuna. Svevo Bandini è un muratore padre di tre figli, sposato a una devotissima donna: Maria. Durante il rigido inverno il lavoro nel cantiere viene sospeso fino alla primavera e allo sciogliersi della neve. Così la famiglia arranca, e Svevo disperato non fa altro che rifugiarsi nell’alcol in compagnia dell’amico Rocco Saccone tra una bettola e l’altra, mentre Maria per migliorare la situazione ricorre all’unica cosa che le da sollievo, la preghiera: «Anche lei aveva la sua via di fuga, un varco verso l’appagamento: il rosario… Rappresentavano grano dopo grano, la sua placida fuga dal mondo». La situazione si fa sempre più critica fino al punto che la donna sarà costretta a mandare avanti il figlio Arturo per chiedere per l’ennesima volta al macellaio accanto a casa di farle credito, semplicemente per sfamarsi: «E allora le tornò in mente, fulmineo, tutto quello di cui c’era bisogno in casa e la colse uno sfinimento simile allo svenimento mentre le sembrava di venire investita da una valanga di sapone, di margarina, di carne, di patate…». Fino a quando Bandini troverà un lavoro di fortuna presso la donna più ricca e potente della città: Effie Hildegarde. Questo nuovo rapporto sembra almeno in un primo momento mettere al sicuro la situazione economica della famiglia. Invece giorno dopo giorno metterà a repentaglio lo stesso matrimonio, facendo del muratore il passatempo prediletto dalla potente signora.
La bellezza di Fante è che non ci fa aver pena dei personaggi, ma patire con loro, compatirli nel senso proprio della parola. Ci regala stralci di vita quotidiana forti ma mai grotteschi. Per questo non ci scandalizza il peccare, la fragilità dei personaggi. Come il primo innamoramento di Arturo tra i banchi di scuola, che impressiona e sembra farci tornare nella nostra vecchia classe, di sentire ancora l’odore di gesso e legno: «c’era una nuova voce a parlare della macchina per il cotone, dolce come quella di un violino, gli faceva vibrare le carni obbligandolo a trattenere il fiato». L’autore rimette in circolo, in chi ha la semplicità di porsi davanti a questo testo, argomenti e questioni non più in voga, come la fedeltà matrimoniale, il problema della fede traballante tra incisività e bigottismo soprattutto in Maria e nel figlio August. È questo il maggior pregio dello scrittore, la schiettezza nel dirci: non so come dovrebbe essere, ma è così, questa è la dinamica.
Sarebbe sminuente dire che questo breve scritto sia soltanto un’autobiografia ben riuscita come molta critica ha insinuato, dato il facile collegamento con le figure paterne dell’autore. Fante scrive nell’ultima prefazione, poco prima della sua morte: «Di una cosa sono però sicuro: tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina». Di tutto questo dobbiamo ringraziare chi si è preso la responsabilità di far rivivere una letteratura che non riduce le dinamiche familiari ad analisi da lettino psicologico, ma le affronta di petto, senza rinnegare nulla. Ben tornato John.
(Martino Sartori)