“Non è un Paese per giovani” il nostro, suggerisce il titolo di un libro recente di Elisabetta Ambrosi e Alessandro Rosina sull’odierna esperienza giovanile (Marsilio, 2009). “Non è un Paese per vecchi” l’Italia, sembra al primo replicare un secondo “squillo di tromba” – questa volta di Franco Morganti – dedicato al rapporto tra “tv digitale e poca concorrenza”, pubblicato dal Corriere della Sera il 13 Dicembre 2010. Sciolta da tale antinomica declinazione, l’idea – apparentemente deprimente – che “siamo un paese per vecchi” è, invece, stata ad esempio elaborata, da un lato, in senso almeno parzialmente positivo ad opera di Nunzia Penelope in un pezzo sulla “formidabile” gerontocrazia dell’italica classe politica (Il Foglio, 5 luglio 2009); dall’altro, in senso decisamente negativo da Arrigo Sacchi in una riflessione sulle nostrane sorti calcistiche dopo la firma del suo contratto biennale di coordinatore delle nazionali giovanili (La Repubblica, 6 agosto 2010): “L’Italia non crede nei giovani, il nostro è un paese per vecchi”.



Sono queste solo alcune delle numerose varianti interpretative di una formula assai ricorrente di questi tempi, e con buona ragione. Tuttavia, quando si cerchi di sondare la consapevolezza della fonte e della veste originaria di tale formula presso la cosiddetta opinione pubblica (troppo di frequente sbrigativamente sazia in materia di cultura), si scoprirà che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli interpellati che ne hanno (auspicabile) contezza si appiattiscono sul riferimento immediato al fortunato film dei fratelli Cohen (2007; versione italiana, 2008) – poche essendo sia le indicazioni dell’omonimo romanzo (2005) del novelist statunitense di lontane origini irlandesi Cormac McCarthy (1933-), sia la precisa menzione del Nobel irlandese 1923, William Butler Yeats (1865-1939), come facitore poetico dell’originario verso That is no country for old men.



Già, perché di un verso si tratta, e non di un verso qualunque: il primo dell’arcinota “Sailing to Byzantium” – da intendere con Gabriele Baldini (1967) come “Veleggiando verso Bisanzio”, please! – che inaugura la straordinaria raccolta poetica The Tower (1928). “That is no country for old men”, ovvero “quello non è un paese per vecchi”: vi spiccano l’indicazione prossemica di quel “that” che crea un’incolmabile distanza rispetto all’anziano Io poetante del testo; la spietata nettezza antropologica di un orizzonte tempo-spaziale (Bisanzio, appunto) che si sottrae all’esperienza, a un’intera età della vita, la vecchiaia, senza appello; soprattutto, rispetto ai limitati obiettivi di questo breve articolo, le multiformi implicazioni del sostantivo “country”, innanzitutto geografiche ma, di conseguenza, anche storiche, sociali, politiche, istituzionali, economiche, ecc.



Sì, anche economiche, come dimostra quanto annotò il grande poeta irlandese proprio su “Veleggiando verso Bisanzio” in occasione di un programma radiofonico della Bbc (1931): “Quando gli irlandesi miniavano il Book of Kells e ornavano di pietre preziose i pastorali del National Museum, Bisanzio era il centro della civiltà europea e la fonte della sua filosofia spirituale”. Anche per questo il verso “that is no country for old men” pare oggi probabilmente così densamente rappresentativo e così efficacemente funzionale in contesti tanto diversi: è la consueta aspirazione della letteratura a dire comunque della totalità della realtà, sfuggendo – se il lettore responsabile la asseconda – a limitazioni ideologiche non personali e precostituite, ad esempio quelle che, anche oggi, vorrebbero escludere o marginalizzare l’esperienza dell’economia dalle sue meravigliose trame testuali.

Ciò vale, ad avviso di chi scrive, soprattutto per poeti come Yeats, che una certa odierna vulgata giornalistico-esoterica vorrebbe inadatto ad incarnare compiutamente le caratteristiche dello scrittore “competente nelle materie economiche” richieste da Louis Macneice in Modern Poetry – a meno che tali caratteristiche e competenze non vengano definite con una certa approssimazione o con una qualche magnanimità. Va detto che la silhouette di uno “Yeats economista” pare forse improbabile anche perché il poeta irlandese non manca di disseminare la sua opera di tracce (raramente esaminate dagli studiosi in modo attendibile, pur con sparute ma lodevoli eccezioni) apparentemente ostili alla teoria ed alla prassi economiche del suo tempo, che emergono, ad esempio, nel ricordo del periodo in cui il giovane Yeats “non studiò la scienza economica, essendo diventato socialista a causa delle conferenze e degli scritti di William Morris” (riferibile all’incirca al 1887); nell’infastidito riferimento al “rumoroso gruppo dei banchieri” (vv. 12-13) della poesia “La maledizione di Adamo” (1902); nella prospettiva intravista in età matura di “un mondo in cui il predominio della finanza e delle scienze economiche in tutte le loro forme […] dimostra che la forza delle macchine conquisterà in breve tempo la supremazia” (A Vision, terzo libro, 1929).

Eppure, un’interpretazione letterale e miope di questi (e di altri) passi dall’opera di Yeats farebbe torto alla dimensione economica (e non economicistica) che caratterizza sia la lunga esperienza da pioniere ante litteram dell’imprenditoria culturale votata alla causa politica della tradizione nazionale, sia il ruolo squisitamente politico che il Nobel per la Letteratura 1923 assunse tra il 1922 ed il 1928. Tale dimensione si concretizzò, infatti, ad esempio, nella partecipazione dapprima indiretta alle Dun Emer Industries (ricamo, grafica ed editoria), avviate a partire dal 1902 da Elizabeth (“Lolly”) e Susan (“Lily”) Yeats, e, in seguito, sempre meno indiretta alle Cuala Industries – e, soprattutto, alla Cuala Press – alle quali le due sorelle Yeats diedero vita nel 1907-8; nella fondazione, direzione e amministrazione del dublinese Abbey Theatre, che Yeats condivise con Lady Augusta Gregory (1852-1932) e John Millington Synge (1871-1909) e che iniziò la sua attività nel 1904 dopo una lunga incubazione teorica ed una paziente fatica di progettazione; nei due mandati senatoriali (1922-1925, 1925-1928), durante i quali Yeats dovette davvero fornire prove di grande intuizione (dovendo escludere, per sua stessa ammissione, la competenza tecnica), se il suo biografo Joseph Hone può ricordare che “i senatori del suo gruppo si facevano spesso consigliare da lui su questioni pratiche, e uno di loro disse: ‘Yeats sarebbe stato un meraviglioso banchiere’, e un altro: ‘Abbiamo un poeta, ma abbiamo perso un grande giurista’”.

Questi dati biografici dovrebbero mettere in discussione l’usurata caricatura di uno Yeats spesso “con la testa fra le nuvole” (come scrisse l’amico medico Augustine Henry, 1857-1930), che estende impropriamente, per una sorta di biografismo alla rovescia, una delle sue maschere poetiche fino agli angoli più remoti di una vita improntata all’unità tra visione e concretezza. Il suo atteggiamento nei confronti dell’economia non comportò tout court la negazione del pensiero economico, bensì una serie di scelte culturali consapevoli e diacronicamente differenziate, tra le quali, ad esempio, quella giovanile in base alla quale, per citare l’anglista Elizabeth Cullingford, “il suo nazionalismo divenne inestricabilmente intrecciato con l’anticapitalismo e con l’egalitarismo economico, giacché egli riteneva che la diseguaglianza economica produce la stagnazione culturale”. Più in generale, l’evoluzione del suo progetto econoletterario, da intendere in senso etimologico come “amministrazione” dell’edificio della cultura letteraria irlandese nelle sue più diverse latitudini, prevedeva l’elaborazione e l’esercizio di un pensiero economico altro, che potesse agire secondo un modello forse non lontano da quello che lo storico dell’economia Willie Henderson rileva nell’intellettuale vittoriano John Ruskin (1819-1900), ovvero in grado di stimolare “lo sviluppo di un’immaginazione che agisca nell’ambito della scienza economica [an economics imagination] e che sappia andare al di là delle condizioni esistenti”: concezione, questa, simile a quella che lo stesso Yeats aveva attribuito al poeta William Morris (1834-1896), il quale “sapeva come Shelley [1792-1822], per un atto di fede, che gli economisti dovrebbero trarre le loro misure non dalla vita com’è, ma dalla visione del mondo reso perfetto che è sepolta sotto le loro menti” (1902). Nel complesso, questa prospettiva yeatsiana non solo ammetteva il pensiero economico, ma ne autorizzava la prassi, derivandone i criteri operativi dalla stessa sorgente a cui attingono la mente e la mano dei poeti: quella “visione del mondo reso perfetto che è sepolta sotto le loro menti”, che implica distanza e oggettivazione rispetto alla superficie della realtà tangibile.

Morale della favola? Senza arrivare all’audace “Meglio poeti che businessmen” del titolo di un articolo di Marina Terragni (IoDonna, 13 febbraio 2010), basterebbe forse, con l’economista Giacomo Beccattini, “leggere i mondi di Calvino per capire la realtà” (Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2005) e per ritrovare l’agognata unità dell’esperienza umana alla quale Yeats aspirò durante tutta la sua parabola di uomo e di intellettuale votato alla letteratura.

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