In questa nota intendiamo rivolgere il faro dell’attenzione sulla epistemologia dell’espressione responsabilità sociale dell’impresa. Facciamo questo partendo dal presupposto che molti termini e molte espressioni nell’uso comune acquisiscono una sorta di potere magico, ovvero la portata di segno e di logica che il termine o l’espressione intendono evidenziare vengono ontologicamente snaturati, e in definitiva svuotati, per acquisire invece un beneplacito collettivo su cui vi è un’apparente adesione sul termine stesso, ma spesso non vi si ritrova il comune significato che le parole e le espressioni convenzionalmente debbono avere.
In altre e più semplici parole, l’espressione “responsabilità sociale dell’impresa”, la parola “etica”, come tante altre non conducono ad un’univoca accettazione di significato, ma sono espressioni spesso usate per far convergere opinioni più che per precisare e perimetrare la portata logica dell’espressione o del termine.
Il termine “responsabilità sociale dell’impresa” è intimamente legato al rispetto dei principi etici, quindi, in maniera preliminare, occorre precisare il contenuto e la portata logica del termine “etica”. Un’azione è etica laddove sia protesa a perseguire risultati che non ledono diritti e interessi di altra o altre persone o collettività a cui l’azione è rivolta. L’eticità del fine dell’azienda è la “governance” che conduce l’azione stessa. L’etica è diversa dalle buone intenzioni perché queste ultime possono non condurre a risultati che salvaguardano i diritti e gli interessi altrui. Le buone intenzioni non sono sufficienti a perseguire sicuri risultati etici, ma l’etica è ciò che informa a priori il perché l’azione dev’essere svolta.
Venendo adesso al concetto di “responsabilità sociale d’impresa”, esso ci riporta immediatamente ad una verità incontrovertibile: l’impresa è un istituto che è inserito in un sistema più ampio che è l’ambiente. Il primo rapporto etico che l’impresa ontologicamente deve rispettare è quello della sua localizzazione che è, quindi, il rapporto che essa verrà ad instaurare con la sua stessa presenza con l’ambiente ad essa più immediatamente prossimo.
Il primo rispetto etico-sociale dell’impresa è il suo essere socialmente localizzata, quindi è il rispetto dei rapporti che il suo localismo immediatamente comporta. Vale a dire, la nascita di un’impresa modifica l’ambiente, i rapporti che ne sorgono sono il primordiale impatto che essa con la sua stessa nascita comporta con il localismo in cui è inserita.
È questo un “contratto” a priori che l’impresa ha e deve mantenere nel tempo per il suo stesso essere impresa in quel determinato localismo. Qualsiasi fuga da questo “a priori” etico è lo strumento tramite il quale prevale esclusivamente il tornaconto economico rispetto al contenuto essenziale che costituisce la validità del termine “etica” che è il principio del bene comune; il bene comune, infatti, è tale solo se si ripercuote su tutti gli individui direttamente o indirettamente coinvolti dall’azione dell’impresa.
Il bene comune è diverso dal cosiddetto “bene totale”, perché il bene totale è la sommatoria dei beni individuali di un certo localismo. Nel bene totale ricade sempre a pennello la famosa battuta sulla statistica: a ciascuno tocca un pollo in media, ma a me, guarda caso, non è toccato nulla. Il bene comune opera in maniera tale che tutti abbiano un pollo. Il bene totale è il concetto materialistico dell’economia e in buona sostanza appartiene sia all’economia marxista che a quella capitalistica, in quanto entrambe economie materialiste. Alla luce del principio del bene comune, un’impresa è definibile “etica” solo quando sia nella fase dell’incetta che in quelle della produzione e della distribuzione della ricchezza opera nel rispetto dell’interesse comune; da cui se ne deriva che la cosiddetta teoria secondo cui un’impresa sarebbe etica solo perché rispetta gli interessi di shareholders e stakeholders è una teoria limitata, perché gli interessi di questi ultimi debbono, a loro volta, anch’essi essere orientati al principio del bene comune.
Il principio del bene comune è perseguibile nella realtà delle cose tramite “strumenti-principi” che ne costituiscono da un lato una sorta di corollario, e dall’altro un viatico di operatività.
Ci riferiamo al principio di solidarietà per cui un’azione è rivolta al bene comune proprio perché “solidalmente” coinvolge tutti gli interessati a cui l’azione è rivolta. Ci riferiamo al principio di reciprocità che richiama non a un astratto principio di giustizia, ma ad un più realistico principio di equità. Ci riferiamo al principio di sussidiarietà così come da von Nell-Breuning è stato concepito alla luce delle encicliche sociali Rerum Novarum e Quadragesimo Anno, ovvero alla circostanza che i cittadini possano associarsi per perseguire risultati volti al bene comune con proprie strutture aziendali profit e non profit.
Da quanto detto, ne risulta che se la “responsabilità sociale d’impresa” non è ricondotta nel binario etico del bene comune essa diviene un’astratta posizione intellettuale e non partorisce fatti che concretamente toccano l’interesse dell’uomo e del suo cuore. Quest’ultimo è quel “di più” che consiste nel “dono”, atto completamente sconosciuto all’astratto e pernicioso homo oeconomicus.