Durante una recente conferenza sulla sicurezza il premier britannico Cameron ha denunciato il fallimento del “multiculturalismo di Stato”, la teoria secondo la quale, poste un minimo di leggi identiche per tutti, ciascuno può comportarsi, e in alcuni casi giudicarsi, secondo la propria cultura originaria. Si tratta dell’incrocio fra uno stato minimo liberale – dove libertà significa poter fare ciò che si vuole senza arrecare danno agli altri – e la teoria multiculturalista, secondo la quale non c’è cultura che possa arrogarsi il diritto di essere migliore. Infatti, si dice, non c’è una verità in base alla quale poter dare dei giudizi di valore.



Cameron denuncia il fallimento di questa dottrina come del suo opposto: l’identificazione di tutte le culture “altre”, in particolare di quella islamica, con l’estremismo e dunque con un potenziale nemico. Non c’è una guerra di religioni o di culture, ha detto il premier inglese. L’estremismo è un’ideologia mentre la religione islamica è tutt’altro.



Facile concordare. Sia le posizioni della sinistra soft sia quelle della destra conservatrice producono solo il risultato di accrescere le distanze, di farci vivere “segregati” gli uni dagli altri, fomentando rispettivi odi e pregiudizi, che possono sfociare in violenze ideologiche. Nelle parole di Cameron, esse sottolineano solo che “non siamo riusciti a fornire una visione della società tale per cui uno dovrebbe desiderare di farne parte”.

Il problema è la pars construens. Cameron vuole un liberalismo “muscolare”, cioè non uno stato minimo con l’unico valore della tolleranza, ma uno stato che proponga i suoi valori, che, a suo avviso, consistono in un certo nucleo di credenze: libertà di parola e di culto, democrazia, stato di diritto, parità di diritti indipendentemente da razza, sesso o genere. E conclude: “Per appartenere a questo posto devo credere in queste cose”.



L’affermazione crea questioni di contenuto e di metodo. La prima: è proprio il contenuto intrinseco di questi valori a generare il problema. Se c’è libertà di parola, c’è anche libertà di parola per il terrorista; se c’è libertà di culto, c’è anche per l’estremista; il diritto difende l’innocenza e la privacy anche di chi è potenzialmente pericoloso; la democrazia ne difende lo spazio pubblico; la parità non permette di subordinare oltre che le persone, le culture e le religioni.
 

La seconda: come si scelgono i valori decisivi (lasciando stare il “chi sceglie” che è altrettanto problematico)? Si crea qui il classico piano inclinato: se la parità dei diritti vale per tutti, perché non vale anche per gli animali? Se vale per gli animali non varrà anche per le piante? E i sassi? E così via fino a creare una perfetta uniformità di tutti i valori, il che impedisce che siano ancora “valori”. Se tutto vale, nulla vale.

Il fatto è che l’origine concettuale del problema si trova nello stesso liberalismo. Per questo la sua versione “muscolare” è impossibile come le altre. Il liberalismo, sia nella versione debole della libertà negativa (liberi da) sia in quella forte della libertà positiva (liberi di) finisce sempre in un paradosso: se si è del tutto “liberi da”, alla fine si è isolati e deboli, facile preda di ideologie – quello che Cameron denuncia come sinistra soft; se si è del tutto “liberi di” si finisce presto con il difendere un’ideologia – la destra conservatrice.

Del resto, uscire dal liberalismo non sembra una buona idea: gli ultimi tentativi sono stati il fascismo e il comunismo, in tutte le loro accezioni, e non sono stati dei successi. In attesa di trovare una forma politica del tutto inedita – cosa che occorre cercare – bisogna trovare un sistema per far funzionare il liberalismo senza incorrere nei problemi sollevati da Cameron.

Parte di questi ultimi possono essere ovviati se si cambia la ricetta finale sulla costituzione dell’identità. Certo, il tema affonda le radici in un quadro storico e pedagogico immenso. Ma oltre alle grandi soluzioni di cambiamento di mentalità, che sono senz’altro la vera questione ma a lungo termine, interessando concezione ed educazione, la politica deve cercare anche risoluzioni veloci che vadano in una direzione giusta. Riprendiamo la ricetta Cameron: per appartenere a questo posto devo credere a queste cose. Perché “credere”? Credere è innanzi tutto un tema controverso. Ne sapeva qualcosa Newman che pensò tutta la vita sull’assenso formale e reale. E poi sembra fuori luogo in questo campo: vogliamo davvero che si “creda” alla democrazia? Non si può esserne anche solo debolmente convinti? Non basta accettarla? I muscoli che il credere in questi valori sviluppa sono muscoli morali: ma non diventano subito moralistici?

Una proposta alternativa si basa sul fatto che l’uomo è un’unità di pensiero e azione, e per capire bisogna fare. L’identità si costruisce innanzi tutto su un piano antropologico e pratico. I “gesti”, “azioni che portano un significato”, sono il veicolo di una visione generale resa concreta. Gli statunitensi trovano una parziale unità esponendo e onorando la loro bandiera, promuovendo lo sport, festeggiando il giorno del ringraziamento e quello della memoria dei caduti. Storicamente i sudamericani hanno trovato nei gesti della liturgia cattolica momenti di unità e unificazione grazie ai quali la multiculturalità (dopo il controverso massacro iniziale) è stata effettivamente difesa.

Il Papa ha recentemente affermato che la libertà di credere è un valore e, per dare una ricetta politica, ha detto che occorre difendere le feste. A prescindere dal fatto che uno ci creda, iniziamo a condividere i gesti. Facendolo si sarà facilitati a capirne il valore intrinseco: per questo se vogliamo irrobustire il nostro liberalismo, non dobbiamo cercare di sforzare i muscoli del sentimento ma scovare e difendere i gesti – non solo le feste, ma anche letture, musiche, cibi, luoghi, sport ecc. – che formano l’identità europea e che sono già parte dei nostri modi di vivere. Meno sforzo muscolare e più osservazione: i nostri gesti sono già pieni di ragioni.