Non so che idea abbiate degli eroi. Coraggio, incoscienza, generosità, passione, sono caratteri che ben si addicono al protagonista del romanzo Non chiedere perché, di Franco Di Mare. Anzi, lo dichiaro subito, sono i tratti dello stesso autore. Giornalista, volto noto televisivo ma più noto e capace inviato di guerra: ne porta i segni sul corpo, e non solo. Ma è la Bosnia la guerra che gli ha cambiato la vita. Il romanzo, nonostante o proprio per quel titolo, svela invece tutti  i perché a una storia incredibile, impossibile, anche per un intreccio d’avventura, per il più audace film d’azione.  E lascia intuire i perché non detti.



Correva l’anno 1992. Marco De Luca parte con un cargo umanitario diretto a Sarajevo per raccontare al suo tg una città assediata, la guerra civile, la pulizia etnica. Lascia alle spalle una sgretolata storia d’amore, sembra  non aspettare nulla, o il tutto, come il tenente Drogo de Il deserto dei tartari. In Bosnia trova il colpo di coda di un secolo di orrori, e un’impresa più che rischiosa. E’ l’unico italiano, ed è un giornalista che ama le scarpe bucate, non si accontenta di rimediare un servizio incollando notizie d’agenzia. Gli interessa la gente che tenacemente continua a vivere, va in cerca di facce e di storie, ben più toccanti dei bollettini diplomatici o dei dispacci delle truppe in campo.



Così, visitando un orfanotrofio appena colpito da una granata, incontra gli occhi ridenti di Malina. Dieci mesi, piccola zingara bruna tra biondissimi compagni di solitudine. Basta una manina sul collo di quell’uomo con l’elmetto, il tentativo capriccioso di un pianto e Marco ha deciso che sarà sua figlia, che la porterà via. Sa che i bambini sono destinati a una mèta sicura, su un treno che li condurrà in Germania entro pochi giorni. Tenta l’assurdo e ci riesce: ottiene i documenti di affido, riesce a nascondere la piccola nella sua stanza cadente all’Holiday Inn, fugge in modo rocambolesco proteggendola in un abbraccio sotto il giubbotto antiproiettile, verso l’aeroporto mitragliato dai cecchini.



La paura attanaglia le gambe ed è solo l’inizio. Perché la paura più grande da vincere è per la scelta di diventare padre, di dipendere da una bambina che ti si affida,  che ha bisogno di una famiglia e di cura. E Marco non si impone alle circostanze, le accoglie. Sa che il destino suo e di Malina non sono nelle sue mani, ma fa di tutto perché un disegno buono si compia, per suo tramite. Questo è eroico davvero, questo merita il soccorso di anime buone, di amici belli che illuminano questa storia vera e ne permettono il lieto fine. C’è la guida bosniaca, il collega cameramen, la limpida ragazza svizzera che furtivamente si intrufola nella sua vita, senza nulla chiedere, neanche l’amore, perché la bimba abbia da subito mani femminili pronte a accudirla.

C’è la presidente della Croce Rossa che scavalca ogni impiccio burocratico, ogni opportunismo diplomatico e lascia che sia il cuore ad agire. C’è una città umiliata, ferita che gronda sangue e dignità: salvare Malina è la certezza di un riscatto, l’inizio di una rinascita che si compirà.
Tutto questo basa e avanza per fare del romanzo un libro che avvince, soggioga, commuove. Dove il cuore non lascia spazio al sentimentalismo, ed è quasi un miracolo, in una storia così. Forse perché chi scrive ne ha viste tante, sa temperare le emozioni con l’ironia.
E c’è qualcosa di più: c’è che Marco De Luca lo conosco, e conosco Malina. E’ una stella di rara bellezza, una ragazza dolce saggia, serena. Leggendo questo libro sarà più forte, sarà orgogliosa di suo papà. Forse piangerà: ma come diceva il Gandalf di Tolkien, nelle pagine più struggenti de Il Signore degli Anelli, tra le ombre di Mordor e il calore degli amici, “non tutte le lacrime sono malvagie”.