Nella primavera del 1796, con l’arrivo delle truppe francesi guidate da Napoleone, in Italia per la prima volta dopo tanti secoli si pone in forma radicalmente nuova il problema dell’unità d’Italia. Finora infatti tutti erano consapevoli che l’Italia fosse una nazione, ma davano a questo concetto il significato di un’unità sul piano religioso e cultural-linguistico (almeno per la cultura “alta”) mentre era considerato ovvio che questa tradizione di unità non comportasse l’esigenza dell’unificazione politica.



La prospettiva diffusa in Italia dalle baionette napoleoniche era quella della liberazione da tutti i vincoli dell’Ancien Régime per costruire una nuova visione della vita e nuove istituzioni politiche sulla base del principio che “la sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”.

Come trasformare il concetto culturale di nazione nel nuovo concetto etico-politico? I francesi ci provano cercando di trasferire i valori fondanti della cultura rivoluzionaria (liberté, egalité, fraternité, lo statalismo e la scristianizzazione) nel riformismo istituzionale che caratterizza i nuovi stati italiani infeudati alla Francia.



Ma gli italiani non ci stanno: lo mostrano le numerose Insorgenze di comunità popolari (in nome del cattolicesimo e degli usi e costumi sociali tradizionali) che costellano il ventennio dell’occupazione napoleonica.

Più profondamente, anche chi all’inizio si era schierato dalla parte della “novità e del progresso” (come il patriota napoletano Vincenzo Cuoco, che aveva collaborato all’instaurazione delle Repubblica partenopea) rileva che il limite della cultura rivoluzionaria è quello di non riuscire ad andare oltre una “Rivoluzione passiva”, cioè imposta al popolo, considerato solo oggetto di inoculazione di valori nuovi e non riconosciuto come portatore di un patrimonio di tradizioni autentiche e valori propri.



A Milano, l’esule Cuoco agli inizi dell’Ottocento trasmette questo giudizio al giovane Manzoni, ribelle all’educazione cattolica ricevuta, che inneggia al trionfo della Libertà rivoluzionaria contro la Superstizione come risposta al suo anelito di ricerca del “santo Vero” del significato della vita e della storia. Manzoni attraverso Cuoco scopre che la libertà è prendere coscienza della propria insopprimibile originale tradizione e che questo vale per il singolo come per il popolo.

Dopo il soggiorno parigino presso la madre, che lo convince definitivamente sull’astrattezza della prospettiva illuministica di illuminare realmente tutti i fattori dell’esperienza umana, intraprende con la giovane moglie Enrichetta un cammino di razionale riscoperta della profonda verità ed umanità della fede cattolica, intesa come l’unica che “ha rivelato l’uomo all’uomo”.

La conversione non comporta però per Manzoni l’abbandono degli ideali di libertà e di nazionalità della giovinezza, né tanto meno l’adesione ai principi della Restaurazione, perché comprende che il cattolicesimo non coincide con un’ideologia politica particolare, anzi è convinto che Dio guidi la storia attraverso la libera adesione dei singoli e dei popoli alla sua chiamata, che è sempre una chiamata alla maturazione della libertà e di una sempre più “umana” organizzazione socio-politica della nazione.

 

Così nel 1815 inneggia al tentativo di riscossa “italica” di Murat dicendo:

“… eran le forze sparse,

E non le voglie; e quasi in ogni petto

Vivea questo concetto:

Liberi non sarem se non siam uni;”

Paragonando il suo appello a quello di Mosè, scelto da Dio per liberare Israele dalla schiavitù d’Egitto. L’unità d’Italia è quindi vista come l’esito di un progetto di liberazione di ispirazione religiosa.

 

La definizione precisa però del ruolo e dell’importanza dell’unificazione è affidata all’ode Marzo 1821, quando, auspicando il successo ai moti piemontesi del momento, Manzoni inneggia alla “gente risorta” che “libera tutta” sarà:

“Una d’arme, di lingua, d’altare,

Di memorie, di sangue e di cor.”

Vien definita qui la concezione di Risorgimento del Manzoni: l’uomo non può rinascere “da solo”, l’uomo è essenzialmente relazione e può “risorgere” solo innestandosi con la radice del Mistero da cui proviene, il che sul piano naturale significa riappropriarsi della propria tradizione nazionale e sul piano soprannaturale appartenere al popolo di Dio.

 

Dall’Ode si comprende come la comunità nazionale italiana sia presentata come una realtà costituita da fattori bio-culturali, la cui coesione è garantita da una comune confessione religiosa, da una lingua comune, dalla memoria di un comune passato. La nazione è immaginata come una comunità di parentela, una grande famiglia, le cui reti di relazione collegano intimamente la generazione presente alle passate e alle future.

È una visione “romantica” della nazione, in quanto afferma che la nazione non è creata dalla volontà generale, ma è il frutto di un’aggregazione sociale organica fondata su valori originali, nella quale l’impegno per l’unificazione, cioè il tentativo di “trasformare la nazione culturale in nazione territoriale” (Chabod), assume la funzione di mediazione storica concreta dell’ideale di rinnovamento del singolo e della società in obbedienza alle esigenze ideali della propria tradizione religiosa.

 

L’ideale del Risorgimento in Manzoni non è quindi un semplice progetto etico-politico, ma è il diventare cultura della sua fede, inaugurando una nuova concezione della Rivoluzione (contrapposta all’ideale della Rivoluzione francese) che prevede il superamento dell’ordinamento socio-politico storicamente esistente a partire dalla “conversione” al “santo Vero”, i fattori ideali della Nazione.

 

Si comprende così come Manzoni abbia concepito la sua vocazione poetica come un servizio alla causa risorgimentale e come il suo grande romanzo, I promessi sposi, vada considerato il suo personale contributo non solo al rinnovamento di una lingua comune per il popolo quanto, nella scelta stessa del periodo, dei temi e dei personaggi (fece scandalo la scelta degli “umili” Renzo e Lucia quali protagonisti), del valore della religione cattolica quale autentico “catalizzatore” dell’identità italiana, anche nei periodi più bui della sua storia. 

 

La posizione di Manzoni conferma quanto recentemente ha detto il card. Bagnasco quando ha affermato che anche i cattolici sono “soci fondatori” dello Stato unitario.

Ciò è particolarmente vero perché, come sa ogni lettore dei Promessi sposi, a differenza di altri convinti sostenitori dell’essenza religiosa della nazione e della sacralitàdelle lotte cruente che si devono ingaggiare per difenderne o recuperarne la libertà, Manzoni nel romanzo mostra Dio e la fede come il motore della storia, ma la religione non è mai vista come semplice fattore di incivilimento o come instrumentum regni al servizio di questo o quell’ideale politico (e neanche come forza politica in quanto tale), è “una presenza soffusa”, che illumina tutto e tutti, e dà forza all’uomo ed al popolo che liberamente l’accoglie di affrontare le circostanze di una vita che rimane sempre esposta all’irrazionalità e alla precarietà nelle soluzioni politico-sociali (Manzoni è contro l’idea stessa che si possa realizzare il “perfettismo politico”),  con un atteggiamento costruttivo e fecondo di germogli di rinnovamento sociale e culturale.

Fin dall’inizio quindi l’afflato “religioso” caratterizza il patriottismo italiano e la dinamica degli eventi del ’48 in un primo momento sembra costituire il momento della realizzabilità dell’ipotesi di unificazione cattolico-nazionale ispirato al neoguelfismo giobertiano.

Anche di fronte al fallimento dell’ipotesi neoguelfa di Gioberti, dopo la presa di distanza di papa Pio IX in nome dell’universalità del cattolicesimo, il mondo cattolico nella figura di Rosmini, amico e maestro “filosofico” di Manzoni, potrebbe rappresentare una possibilità di conciliazione tra l’ideale religioso e una struttura politica liberale unitaria, ma il suo impegno politico-diplomatico, affettuosamente supportato da Manzoni, non porterà i frutti sperati.

 

Così, negli anni cinquanta dell’Ottocento, si apre lo spazio per quel disegno cavouriano di unificazione liberale che vuole separare cattolicesimo e patriottismo (divenendo di fatto un progetto anticattolico in quanto relega la fede a dimensione puramente spirituale lasciandole la libertà che lo Stato le concede).

Di fronte a tutto questo Manzoni non cede allo sconforto e accetta di buon grado la soluzione unitaria cavouriana (“la federazione è un’utopia brutta, l’unità è un’utopia bella”), convinto che il bene dell’unificazione sia superiore ai limiti della sua modalità di realizzazione e che l’avvenire d’Italia sarà grande nella misura in cui gli italiani sapranno sviluppare le virtualità inscritte nella loro tradizione religiosa e culturale.

 

Allo stesso modo non lo sconvolge la perdita del potere temporale della Chiesa, che anzi saluta come un evento positivo per la Chiesa (anche se depreca il modo “conflittuale” con cui gli italiani sono arrivati a Roma) perché così si abbandonava un elemento caduco della sua forma, ovvero quel tanto di particolarità, quell’aspetto di Stato fra gli Stati, che, a suo parere, rischiava di “oscurare” la sua vera essenza e la sua missione universale (coerentemente con il tradizionale insegnamento cattolico, la Chiesa infatti è per lui il luogo concreto nel quale l’uomo realizza la comunione con Dio e con tutti gli uomini, è il popolo super-nazionale, che non considera nemico alcun altro popolo).

L’eredità che Manzoni ci lascia è quindi l’indicazione di una prospettiva largamente incompiuta: realizzare l’autentico Risorgimento, adeguando lo Stato italiano a tutti i fattori ideali della sua tradizione nazionale.

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