«Nella primavera del 2008 parlavo della triste situazione dell’editoria con il mio agente che mi diceva: “le uniche cose che vendono sono i vampiri e Jane Austen”. Fu allora che mi venne da replicare scherzando: “Dovrei scrivere un romanzo in cui Jane Austen è un vampiro…”». Così, con un filo di disimpegnato (e snobistico?) understatement, lo scrittore statunitense Michael Thomas Ford (1968-) racconta l’origine del suo Jane Bites Back (italicamente Jane restituisce il morso) pubblicato nel 2009 da Ballantine Books (una delle maggiori case editrici nordamericane) come primo volume di una serie di tre che narrano di come la mitica scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817) non sia davvero deceduta come i comuni mortali, ma sia in realtà sopravvissuta come vampiro nella periferia della Grande Mela, sbarchi il lunario esercitando la nobile professione di proprietaria di una libreria, alle prese con due corteggiatori (ironia della sorte post-mortem!) e con un’oscura figura che proviene dal suo personale passato.



Nel nostrano orizzonte giornalistico, è forse proprio il libro di Ford che aveva in mente Antonio D’Orrico quando, in un recente pezzo sul magazine del Corriere della Sera Sette (24 febbraio 2011), ricordava che “la moda del draculismo non ha risparmiato neppure Jane Austen”. Il problema, però, è che D’Orrico lascia intravedere tra le righe una discutibile (ma oggi assai popolare) equivalenza tra “draculismo” e “ristrutturazione goticheggiante” (dei Promessi Sposi ne I promessi morsi!). Trattasi, in realtà, di equivalenza che gli esperti in materia considerano tutt’altro che scontata: mi permetterei, invece, di sottolineare la comune radice – troppo di frequente trascurata – dei suoi due elementi nella propaganda anticattolica a partire dalla seconda metà del Settecento – questo sì terreno fecondo di indagine e riflessione antropologica, letteraria, culturale, politica e religiosa, che attende di essere più adeguatamente dissodato…



Se non ha risparmiato neppure la cristallina Austen, figuriamoci se l’odierna “moda del draculismo” può aver mostrato pietà (ermeneutica) nei confronti dello scrittore irlandese Abraham Stoker detto Bram (1847-1912), la cui vicenda personale viene spesso avvolta di esoterico mistero mediante arzigogoli biografici indotti da interessi ispirati dal marketing editoriale, ma non sempre altrettanto sorretti da dati testuali, letterari e culturali. In realtà, se è indubitabilmente vero che ogni persona è irripetibilmente unica, assai di frequente lo è con la sorprendente normalità biografica di Stoker (proprio qui sta il bello!), che nacque nei pressi di Dublino in una famiglia Anglo-Irish appartenente alla Church of Ireland e alla classe dominante nell’Irlanda del diciannovesimo secolo, fu battezzato in una parrocchia anglicana di Clontarf, sposò la Florence Balcombe (1878) corteggiata da Oscar Wilde e fu dapprima pubblico funzionario del Dublin Castle (sede del governo di Londra in Irlanda e simbolo dell’occupazione britannica dell’Isola di Smeraldo) e, in seguito, business manager del teatro del grande attore vittoriano Sir Henry Irving (1838-1905).



Stoker è l’autore del romanzesco Dracula (1897), cioè della storia del vampiro più famoso di sempre. Il più famoso, certo, ma anche il più strapazzato dalla cosiddetta postmodernità culturale in almeno due ambiti: quello cinematografico, nella cui fantasmagorica cornice vale la pena di ricordare la violenza interpretativa praticata sull’originale vittoriano dall’omonimo film di Francis Ford Coppola, del tutto ingiustificabile dal punto di vista culturale se si considera la sua indebita intitolazione Bram Stoker’s Dracula; quello dell’interpretazione critico-letteraria, che l’ha letto assai di frequente – ad esempio – in senso ideologicamente femminista o antifemminista, coloniale o postcoloniale, nazionalista o antinazionalista, et al., con l’esito infausto di disgregarne tanto l’unità testuale, quanto il delicato equilibrio antropologico.

 

Emblematiche, su questo secondo versante, sono alcune note e prestigiose letture di impronta marxiana della sua pur fondamentale componente economico-finanziaria: in primo luogo, quella di Franco Moretti (Stanford University), per il quale Dracula sarebbe il «vero e proprio detentore di un monopolio che non consente concorrenza», riecheggiando una metafora vampiresca dello stesso Marx, per il quale «il capitale è lavoro morto che, come il vampiro, vive solo succhiando il lavoro vivo e vive tanto più a lungo quanto più lavoro succhia»; in secondo luogo, quella proposta da Andrew Smith (University of Glamorgan), convinto dell’identità aristocratica e feudale del Conte che “sanguina denaro” e non sa adattarsi alle moderne pratiche economiche e finanziarie dei cacciatori di vampiri, appartenenti alla classe media e votati al capitalismo. Spiace soltanto che tali letture non riescano a dar conto delle implicazioni valoriali e – in ultima analisi – religiose che traspaiono da brani come quello in cui Mina Murray, moglie di Jonathan Harker, celebra il «meraviglioso potere del denaro! Che cosa non può compiere, esso, quando sia impiegato a giusti fini e che cosa invece quando sia usato a bassi scopi!»…

 

Orbene, sarà forse perché l’anno prossimo (2012) cadrà il centenario della morte di Stoker (patetica illusione cultural-letteraria?); sarà proprio come effetto indotto dalla sinergia tra il centenario e lo strapotere finanziario-cinematografico del suddetto “draculismo”, alias “vampirismo goticheggiante” (ipotesi meno illusoria e, comunque, strenuamente votata alla difesa della componente cultural-letteraria?)… Insomma – quale che sia l’opinione sulla sua origine e tralasciando volutamente opzioni più ciniche e crudeli – ciò che va comunque segnalato è il crescendo di attenzione che il mondo dell’editoria italiana sta dedicando in questi ultimi anni proprio a opere dello scrittore irlandese (quasi) mai apparse in traduzione per il pubblico dei lettori italiani.

Di Doppie identità. I più famosi impostori della storia (Robin Edizioni, 2009; Famous impostors, 1910) si è già detto altrove, ponendo il problema della direzione – non del tutto accurata – impressa dal titolo della versione italiana. Di altre tre traduzioni recenti si raccomanda caldamente la lettura. Il passo del serpente (Palomar Alternative, 2007; The Snake’s Pass, 1890) precede Dracula ed elabora la relazione tra varie componenti del paesaggio naturale, storico e culturale irlandese, per come essa viene vissuta dal protagonista, orfano di genitori “dispersi in mare”, “allevato nell’ovest dell’Inghilterra da un vecchio ecclesiastico e da sua moglie in modo eccessivamente tranquillo”, e “pupillo di una prozia benestante ed eccentrica, dal carattere rigoroso e intransigente”: in tale romanzo, l’evidente funzione simbolica di un luogo d’Irlanda attualizza conflitti remoti che alimentano le contraddizioni della natura umana e la precarietà delle relazioni sociali in tutte le loro manifestazioni, ma sono risolti dalla “lezione di bontà di Dio”.

 

Delle tre traduzioni di cui si dice, La vergine del sudario (Castelvecchi, 2010; The Lady of the Shroud, 1909) è forse il testo più sorprendente, che inverte la dinamica “vampirocentrica” tra le asperità della Terra delle Montagne Azzurre (e non dico altro: leggetelo!), sorprendendo il lettore con affermazioni di una religiosità icastica e politicamente scorretta (una su tutte: “a cosa non siamo disposti quando è contro la Mezzaluna che combatte la Croce?”), con riferimenti scientifico-tecnologici reali ed immaginari di prima mano e con l’ampia e appassionata esplorazione narrativa di una “Crisi dei Balcani” che toglie il fiato a chi conservi nella memoria le immagini della più recente Guerra dei Balcani.

 

Infine, last but not least, e di dimensioni più contenute del precedente, La tana del serpente bianco (Donzelli, 2010; The Lair of the White Worm, 1911) è ambientata assai emblematicamente tra l’australe Nuovo Galles del Sud e il “vero e proprio cuore dell’antico regno di Mercia, dove ci sono testimonianze di tutti i vari popoli unitisi in quella che sarebbe divenuta poi la Britannia” – territorio ab origine anche il secondo, in cui si manifestano “forze permanenti” del passato che un personaggio autorevole del romanzo, Sir Nathaniel de Salis, suggerisce al protagonista di interpretare senza “confondere ciò che è fisico con ciò che è morale” e alla luce dei “pronunciamenti della religione rivelata”!

Cosa dicono dei tre testi stokeriani le rispettive presentazioni editoriali (siano esse introduzioni, alette o postfazioni) delle versioni italiane? Del primo, che “preannuncia effettivamente quel capolavoro dell’orrifico [Dracula] nella sua natura e venatura di racconto del sensazionale”; del secondo, che “anche qui, come in Dracula, i fatti vengono sciorinati sotto gli occhi del lettore in una sorta di puzzle”; del terzo, che “si muove sugli stessi binari narrativi che avevano determinato il successo di Dracula”. Insomma, per il povero Stoker pare proprio che non si possa fare a meno di riproporre l’antico adagio semel vampirus, semper vampirus – ovvero, nell’italico idioma, “vampiro una volta, vampiro per sempre” – per ragioni neanche troppo velatamente commerciali.

 

In realtà, come non si può cronologicamente dire per lo scrittore irlandese che “in principio fu Dracula”, così non si dovrebbe neppure lasciar intendere sul piano interpretativo che quel grande capolavoro resta il suo unico orizzonte letterario e antropologico, giacché i tre romanzi di cui si è detto testimoniano la sua versatilità letteraria, troppo spesso inchiodata alla concezione testuale e alla prassi scritturale della sua opera più universalmente nota (anch’essa – temo – più di frequente evocata che ermeneuticamente frequentata). Provare per credere, magari leggendo tutto quello che c’è e non soltanto quel poco che ci va di leggere.

 

(questo articolo è l’anticipazione dell’Irish Forum di Enrico Reggiani previsto per oggi, 28 febbraio 2011. I dettagli su http://wbyeats.wordpress.com/catholica/)