Anche la rappresentazione dell’unità d’Italia di Alessandro Banfi riecheggia una sindrome antica, mai debellata, quella dei vinti, cioè della Chiesa (e direi dei cattolici non liberali) e dei contadini meridionali. Sull’onda ancora emotivamente sollecitata di questo stato d’animo si arriva a ridurre l’unificazione nazionale alla politica annessionistica della corte dei Savoia (definiti “franco-piemontesi e massoni” con uno stile da suddito-pago-di-sé dello Stato pontificio), e i costi della creazione e del consolidamento dello stato unitario a pura “conquista regia”.



Sintetizzando un meno perentorio Banti, da parte di Banfi si è parlato di una sorta di pulizia etnica, in cui Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini “confiscarono con la violenza, uccisero, giustiziarono, imposero le loro leggi con la forza delle armi”. Come in una camicia di forza, in  questa sintesi è segregato il grande afflato europeo, il disegno europeistico, lo spirito universalistico di difesa dell’indipendenza nazionale e dei diritti dei cittadini che fu proprio del nostro liberalismo. Il silenzio su Cavour è, a questo proposito, assai sintomatico al pari della concentrazione del fuoco ritorsivo su Mazzini, che è una figura diversa, cioè a rischio di fanatismo e di nazionalismo.



Purtroppo, grazie al clima da guerra civile permanente in cui si di batte la politica attuale, la storia viene letta in maniera unidimensionale. Se ne fa una clava facendo della parzialità un criterio euristico. Ma in questo modo si finisce per proiettare pari pari sul presente il passato. E il giudizio storico, consentitoci dalla distanza di ben 150 anni dagli eventi, finisce per assomigliare a qualcosa come un pregiudizio, un’ideologia dal gagliardo ritorno.

Non credo che tanto Banti quanto Banfi vogliano questo. Pertanto, penso converranno con me – che cattolico non sono – su un punto: non si capisce nulla della grande influenza spirituale e quindi del maggior prestigio tra i credenti (e non) che fecero seguito alla spoliazione della Chiesa del potere temporale, né delle basi sociali e morali in cui si innervò il popolarismo di Luigi Sturzo (direi l’accesso dei cattolici alla politica), se non ci rendiamo conto che furono resi possibili dalla cultura politica liberale.



I governi postunitari poterono eccedere in un surplus di “punture di spillo” verso i cattolici e soprattutto le loro gerarchie, come rilevò uno scrittore cattolico-liberale come Arturo Carlo Jemolo. Ma i papi, direi il fronte ampio della “resistenza” cattolica al fatto compiuto del 1861, non furono da meno sul versante opposto.

Sul dovere dell’educazione dei cittadini/fedeli prevalse la preoccupazione del controllo. Dai sacri palazzi si rese tardiva, lenta e parziale la riconciliazione con i valori universali dello stato di diritto, dell’indipendenza nazionale, della cittadinanza. Furono invece proprio questi ultimi i tratti salienti del liberalismo fiorito tra le due sponde dell’Atlantico. Lì, tra la costituzione francese, quella americana e le varianti nei diversi paesi europei dal Congresso di Vienna in avanti, ebbe origine e prese forma quel mondo moderno che mi pare corretto identificare nell’Europa, nella civiltà cristiana e nel suo principio della dignitas hominis.

 

Dell’espansione del cristianesimo a Erasmo e Voltaire fino ad oggi, Roberto Vivarelli ci ha dato un quadro esemplare nel saggio I caratteri dell’età contemporanea (Il Mulino, Bologna 2005). Nella prassi politica, cioè nell’azione di governo, il liberalismo non ebbe lo stesso rango e livello che nella teoria. Ma né le reviviscenze neo-borboniche né lamentazioni e deplorazioni del vecchio mondo cattolico (forse è meglio dire clericale) né le critiche della storiografia marxista (comunista) hanno potuto contestare il quadro che dell’Italia unita ci ha offerto Rosario Romeo, quando ha inquadrato il sottosviluppo meridionale così come il carattere pedagogico (cioè autoritario) con cui venne a lungo declinato il rapporto Stato-cittadini nella prospettiva dell’accumulazione capitalistica per l’industrializzazione e del rafforzamento dello Stato appena nato e quindi da più lati vulnerabile.

 

Il problema storiografico più importante però è capire come mai il ceto politico liberale che aveva partecipato al Risorgimento, sia passato, con pochissime eccezioni (penso a Giustino Fortunato, per fare un esempio), al fascismo. Con la sua cultura non avevano nulla o ben poco a che fare Sonnino quanto Salandra, Crispi quanto  Giolitti. E per stroncare rivolte e mettere a tacere oppositori e sovversivi (tale fu considerato fino all’ultimo lo stesso Giuseppe Mazzini) non si servirono di milizie private o di squadracce d’azione, come fecero i seguaci di Mussolini, ma dei corpi dello Stato, in nome (che era anche uno schermo) dell’interesse nazionale.

Alla fine il fascismo ha imposto al Risorgimento la sua caratura. L’idea di nazione è stata trasformata in nazionalismo. L’idea del “primato morale e civile degli italiani” è stata trasformata in diritto al colonialismo e all’imperialismo, coinvolgendo in questa logica infame anche l’emigrazione che nasceva da un bisogno, quello di sfuggire alla miseria in patria. Attraverso la scuola, i musei, l’edilizia celebrativa, la mobilitazione di un passato magniloquente in funzione del presente, la centralità di Roma, il fascismo prosegue, e si illude di completare, la retorica del Risorgimento sulle origini di esso. È quello che viene chiamata l’invenzione della tradizione.

 

In questo modo si è retrodatato di secoli, facendola risalire a Dante, Petrarca, Machiavelli ecc. la domanda (e la condizione) di unità. Essa è stata invece un valore limitato. Ha coinvolto piccoli gruppi ed élites, pezzi di gruppi dirigenti che invece il fascismo, proseguendo sulla strada della falsificazione della storia e della creazione di miti dei governi postunitari, ha enfatizzato, come se dietro Cavour, Mazzini, Garibaldi ci fossero grandi masse, anzi un intero popolo. Non fu così. L’unità d’Italia fu una costruzione retorica, frutto di un’euforia e tenacia propagandistica ad ampio raggio. Ci si servì di ogni ordine e grado dell’istruzione, dell’addestramento militare, delle feste nazionali, delle ricorrenze per popolarizzare un evento che di popolare ebbe assai poco.

 

La realtà è che per un paese diverso e diviso, nelle tradizioni e nelle culture,la scelta più opportuna sarebbe stata non l’unità, ma il federalismo, un sistema di grandi autonomie per sperimentare nel lungo periodo un altro percorso. Invece del federalismo (Cattaneo fu un vinto del Risorgimento) come collante abbiamo avuto il centralismo e la burocrazia, gli alti comandi militari, la diplomazia ecc. tutta di estrazione piemontese. Ecco perché mi pare difficile dare torto alla cautela, alla sobrietà, al rifiuto di ogni enfatizzazione del passato ad opera della Lega.

 

La Resistenza solo da sprovveduti cantori di partito può essere evocata come Secondo Risorgimento (il termine venne inventato dalla Dc e osteggiato dalle sinistre all’inizio degli anni Cinquanta). Si è arrivati ad abusi come quello di intitolare a eroi del Risorgimento (Pellico, Pisacane, Garibaldi, Mazzini ecc.) brigate partigiane dominate da comunisti disciplinatissimi nell’obbedienza a Mosca. Esse avevano in testa la missione di abbattere il regime fascista, non di continuare l’opera del Risorgimento. L’obiettivo era di “fare come in Russia”, aprendo la strada alla rivoluzione socialista. Insomma sostituire una dittatura di destra con una dittatura di sinistra.

Chi voleva riprendere l’opera dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, allievi di Gaetano Salvemini, e completare il Risorgimento combinando libertà e giustizia veniva trattato da Togliatti a metà degli anni Trenta come un comune fascista. Perciò l’avversione prima nei confronti di Giustizia e Libertà e successivamente del Partito d’Azione (che si ispiravano agli ideali del liberalismo risorgimentale, della costituzione americana, e dei socialisti inglesi) fu sempre condita di un’ostilità sprezzante.

 

La lettura della rivista Rinascita offre un panorama emblematico dell’anti-Risorgimento comunista. La data del 1861 fu liquidata come un affare di agrari e industriali, con le masse popolari in ostaggio di un’oligarchia corporativa e di partiti degenerati in “cricche”. Né gli scritti di Gramsci, pur avendo elevato il livello del dibattito storiografico, sono andati mai oltre la considerazione dell’unificazione nazionale come di un’occasione perduta. Chiedo: si può davvero sostenere che il carattere “maltusiano” della base sociale del Risorgimento derivò dalla mancanza di un partito antesignano del Pci che guidasse il processo, e saldasse i contadini al nuovo Stato attraverso una prospettiva rivoluzionaria?

 

Fu, però, attraverso lo schermo del Risorgimento che i comunisti italiani cercarono di definire la propria idea di nazione e di presentarsi come continuatori della principale tradizione nazionale. Si illusero che per diventare interlocutori e possibili partner di una nuova maggioranza bastasse definirsi anti-fascisti dal momento che anche Gramsci, e soprattutto Togliatti, proclamarono che il fascismo fosse il testimone naturale e il legittimo erede delle forze politiche e sociali che avevano animato la vicenda unitaria. Nel mio volume Compagno cittadino (Rubbettino, 2006) ho ampiamente documentato questa caricatura del processo storico e la conseguente riduzione della storiografia a strumento ancillare della manovra politica.

 

Grazie al controllo esercitato dalla Dc e in particolare da De Gasperi sul dopoguerra, e soprattutto grazie al rapporto di forza sfavorevole all’Unione Sovietica e ai disegni di Stalin determinatosi dopo l’abbattimento del nazi-fascismo, la psicosi sovietica dei comunisti è stata esorcizzata. Le loro domande radicali sono state parlamentarizzate e imbrigliate nella prassi malsana dell’esercizio dei poteri di veto. La Carta costituzionale ha avuto un carattere assai ambiguo, di compromesso e mediazione, se si esclude la parte programmatica. Proprio questo carattere ha consentito ai governi guidati dalla Dc un’applicazione moderata, ma efficace come quella che ebbe luogo negli anni del centrismo.

 

La polemica del filosofo liberale Norberto Bobbio con Togliatti e altri segretari del Pci per quanto concerne la concezione marxista dello Stato e la confusione tra pluralismo ed egemonia hanno occupato l’intero periodo della guerra fredda e oltre. È quanto basta a mostrare come Togliatti e i suoi eredi non abbiano mai fatto i conti con la tradizione liberale e con quella socialdemocratica. Riconoscerlo equivarrebbe a riconoscere la loro sconfitta. Essa ha un vistoso prolungamento  nell’incapacità odierna del Pd di proporre un’alternativa all’attuale coalizione di governo e allo stesso assetto istituzionale che blocca o frena ogni riforma e progetto di cambiamento.

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