La grande arte e la grande cultura cosmopolita italiana dei secoli preunitari sono una ricchezza inestimabile. Ancora oggi, nella Castiglia spagnola, ci si onora di essere uomini colti per avere letto la Divina commedia di Dante in “volgare” italiano. Tra le altre ricchezze, che sembrano quasi trascurate, c’è la grande diversità del Paese delle “cento città”, ognuna con una sua grande piazza, con la sua cattedrale eretta per onorare il Dio cristiano, con le sue botteghe artigiane nella vie limitrofe, con i suoi dialetti. Ogni città d’Italia, ogni provincia, ogni Paese e ogni borgo, riservano tesori incredibili di una cultura millenaria. Non si finirà mai di ripetere con insistenza che l’Italia, prima di essere una nazione, è una grande civiltà, che ha attraversato i suoi periodi oscuri, ma che è rimasta in modo indelebile. Basta osservare le vestigia monumentali di Roma, una città che, nel patrimonio artistico mondiale, rappresenta da sola il 50 per cento. Senza contare che il diritto occidentale affonda le sue radici nel diritto romano.
Non ci si stupisca se il senso di appartenenza italiana travalica i centocinquanta anni dell’unità d’Italia come Stato unitario, realizzato con l’abile senso politico di Cavour e il coraggio di Garibaldi. E non ci si stupisca se questo senso di appartenenza a una grande civiltà renda tiepidi sul Risorgimento. Forse ognuno ha messo un suo tassello al posto giusto e nel momento giusto, con tutti i limiti insiti nella natura umana e con alcune forzature che la storia ufficiale ha spesso trascurato.
Oggi le ricostruzioni sui grandi media svariano dalle celebrazioni enfatiche, retoriche, verso gli scivolamenti nel gossip, che è diventato il grande “cavallo di battaglia” del giornalismo ai tempi di Internet. Accade così di passare dall’inno di Mameli suonato e mal cantato un po’ ovunque, anche in televisione, ai pettegolezzi sulle “gesta” della Contessa di Castiglione con Napoleone III di Francia e l’incidente “matrimoniale” di Giuseppe Garibaldi con la contessina Raimondi. L’Italia, ci si permetta di dirlo, merita qualcosa di più.
Il processo dell’unità d’Italia merita soprattutto una serena riflessione critica, non distruttiva, ma chiarificatrice. Questa sarebbe forse la base più adatta per coinvolgere di più gli italiani per questo “compleanno” in una fase storica e politica piuttosto problematica. Perché non ricordare, anche per spiegarlo ai giovani, che non solo i cattolici romani chiusero le finestre di casa dopo il 1870 (nove anni dopo l’unità) con la Breccia di Porta Pia. Che cosa fecero i mazziniani che contestarono e non si ritrovarono nello Stato monarchico sabaudo? E perché dimenticare la storia drammatica delle “Insorgenze”, i mugugni dei lombardi contro i piemontesi, il fatto stesso che il “Re galantuomo” non ebbe neppure la sensibilità, diventato Re d’Italia, di farsi chiamare Vittorio Emanuele I, onorando invece la linea dinastica sabauda? E infine perché non affrontare il metodo discutibile con cui si decise di affrontare la “guerra al brigantaggio” nel Sud, cominciata appena dopo la morte di Cavour, con l’invio di truppe pari, in alcuni frangenti, a un esercito di 450mila uomini, più degli americani in Vietnam? Sarà alla fine la base di una “questione meridionale” mai risolta.
Non si tratta di rispolverare antiche polemiche, ma solamente di collocarle al posto giusto, vedendo quali erano tutti i reali fattori in campo, sia di natura nazionale sia di natura internazionale. Una complessiva ricostruzione storica non è mai una fredda documentazione di date, di dati, di battaglie e di sconfitte, ma un esercizio appassionato di “piccolo laboratorio politico”. Noi occidentali siamo “figli”, in campo storico, del pragma di Tucidide, che ci distingue dalla storie narrate in altri popoli e che è ormai impresso nel nostro “dna”.
In altri termini, la storia va interpretata e reinterpretata, rivista, revisionata. Sempre. Si deve cercare di comprendere, oltre agli avvenimenti documentati, anche quando arrivano i tempi e le scadenze giuste perché alcuni fatti si realizzino e per quali fattori complessivi. Ci sono diversi autori che si chiedono perché l’unità d’Italia arrivò così tardi. Alcuni indicano date precise e citano il sogno di Federico II, con le sue Costituzioni di Melfi del 1231, quasi paragonabili alla “Magna Charta” inglese del 1215 di Giovani “senza terra”. Altri pensano al 1496, quando Carlo VIII di Francia riuscì a sfuggire nella battaglia di Fornovo a un esercito composto da tutti gli Stati italiani guidato da Francesco Gonzaga. Altri ancora pensano al sogno irrealizzato del giovane Borgia, il Valentino. Sono tutti fatti interessanti che vanno collocati nel contesto giusto, altrimenti ci si astrae dalla realtà e non si fa storia, ma solo ipotesi di scenari possibili. Tutto questo indica che l’unità d’Italia di centocinquanta anni fa si realizzò in un preciso contesto politico, per il gioco di equilibri politici europei delle grandi potenze dell’epoca che ripose all’aspirazione di alcuni gruppi sociali italiani, che contemplavano ovviamente un autentico slancio patriottico.
Ma resta il fatto della realizzazione dell’unità, che si trovò di fronte a un’impresa gigantesca: quella di inserire in uno Stato nazionale una civiltà millenaria e senza confini. Era inevitabile che le spinte politiche dall’alto avrebbero dovuto fare i conti con i costumi, le consuetudini, la civiltà millenaria del popolo italiano vissuta giorno per giorno. E non è un fatto strano che questa civiltà di base abbia sempre resistito, nei momenti più oscuri di questi centocinquanta anni.
Ci sia permesso di scrivere che chi ama veramente questo Paese, può onorare questi ultimi centocinquanta anni di storia e onorare il compleanno dell’unità andando al Porto Vecchio di Nizza e commuoversi di fronte alla casa dove è nato Giuseppe Garibaldi (casa per altro venduta in questi anni a un privato). Ci si può commuovere anche al tavolo del ristorante torinese di Cavour, sovrastato dalla bandiera italiana. Ma lo stesso sentimento si prova ricordando le figure di Rosmini e di Cattaneo. Ma tutto questo si prova, moltiplicato, quando si entra in un convento di Benedettini, quando tocchi quasi con devozione i testi degli amanuensi che salvaguardarono e tramandarono il nucleo della grande civiltà italiana e cristiana. Quando vai a visitare le opere dei grandi santi sociali di fine Ottocento che facevano i “salti mortali” per difendere il concetto di vita della civiltà cristiana. Quando passi in rassegna la storia del movimento cattolico e socialista, il loro impegno sociale e civile.
Lì, in quel momento, comprendi tutta la forza che il popolo italiano ebbe nell’ultimo dopoguerra per rinascere, per realizzare un boom economico e diventare una grande nazione. Questa storia osservata e meditata vale anche più di un inno cantato a squarciagola, con la mano sul petto. Forse uno scozzese o un gallese che si rifiuta di cantare “God save the Queen” e pretende di ascoltare il canto dei suoi avi, non si sente cittadino della Gran Bretagna?