Serena Vitale è tornata in libreria con A Mosca, a Mosca!, dopo successi come Testimone di un’epoca: conversazioni con Viktor Sklovskij, Il Bottone di Puskin, e le raccolte di racconti La casa di ghiaccio: Venti piccole storie russe e L’imbroglio del turbante. La scrittrice, intervistata da ilussidiario.net, racconta la propria scelta di parlare del poststalinismo e del suo amore per la Russia. Quel luogo dove “nel deserto morale dello Stato ideologico e oppressivo gli esseri umani non avevano perso – non tutti, non del tutto – l’ umanità, la generosità, la solidarietà, l’ansia di libertà”.



In A Mosca, a Mosca! lei racconta un periodo difficile e complesso della storia russa, quello che va dalla fine degli anni sessanta a oggi, forse il meno conosciuto e studiato, almeno in Italia, e dunque probabilmente ignoto ai lettori più giovani. Perché lo ha scelto?

L’ho scelto perché è quello – l’unico – che conosco bene, in prima persona e non dai libri. E comunque  “scelto” non è forse la parola esatta. Spesso sono i libri, i racconti, le storie che scelgono noi.



Com’è nato questo suo ultimo libro? 

Chissà, forse volevo fare i conti con la mia giovinezza. O con un’epoca, come osserva giustamente, poco conosciuta. Mentre molti – basti citare Solzhenitsyn e Grossman – hanno raccontato il Grande Terrore, i lager, le morti all’ingrosso del regime staliniano, molto meno si conosce (eppure anche di questo hanno scritto in tanti) la vita quotidiana della Russia poststaliniana, la routine delle “piccole morti”: la minuta e implacabile violenza esercitata giorno dopo giorno sulle coscienze, sulle menti.

Lei insegna all’università: quanto ha pensato a suoi studenti scrivendo questo libro?



Costantemente. Detesto la demagogia giovanilistica, ma a chi, se non ai ragazzi, dire quello si è visto, vissuto, capito, intuito? E poi sono fortunata: per la maggior parte ho studenti desiderosi di sapere, e il tempo delle  lezioni non è sufficiente per rispondere a tutte le domande, anche solo quelle degli sguardi.

 

Il registro dominante del suo libro, lo hanno scritto tutti i suoi recensori, è quello dell’ironia. Come è riuscita a conciliare l’ironia con le tragiche vicende sovietiche?

 

Da quando, una volta, 44 anni fa, mi venne intimato (in metrò): “È vietato ridere!”, capii che se non volevo restare impigliata nella ragnatela della paura, Signora delle menti nei regimi autoritari, non dovevo sacrificare neppure la mia costituzionale allegria agli austeri bacchettoni di regime, al Codice di Comportamento dei Costruttori del Comunismo. Certo, non si vedevano risate, per strada, nella grigia Mosca degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. E davvero non c’era voglia, motivo di ridere. C’era invece, in particolari occasioni istituzionali, lo spettacolo di un’esultanza fittizia, ostentata. Come molti amici che la Russia mi ha regalato, io mi ostinavo a difendere il diritto all’ironia contro il gaudio e il tripudio imposti, organizzati. Il Grande Inquisitore dostoevskiano disse a Cristo, prefigurando con una lucidità sconvolgente la Russia a venire: “La nostra ira li farà trepidare pavidi, le loro menti si faranno timorose, i loro occhi facili alle lacrime come quelli dei bambini e delle donne, ma a un nostro cenno passeranno con altrettanta facilità all’allegria e al riso, a una gioia radiosa, alla giuliva canzoncina infantile. Certo, li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro organizzeremo la loro vita come un gioco, con canzoni e cori da bambini, danze innocenti…”. E ancora: i rapporti tra ironia e tragedia sono molto più complessi di quanto può sembrare a prima vista; penso a Dostoevskij, a Gogol’ – non per paragonarmi a loro, Dio me ne guardi… Il sistema sovietico era un grande generatore di assurdo, di illogicità, di nonsenso – anche nelle piccole ma infinite peripezie della sopravvivenza quotidiana.

 

A Mosca, a Mosca! è scritto in prima persona, e la protagonista narratrice è Serena Vitale, Serenochka per gli amici russi. Eppure lei sostiene che non sia una autobiografia. Dunque che cos’è? Cosa è inventato nella sua opera e cosa è invece restituito fedelmente?

Che cosa è? Una “sonatina sovietica” (prendo in prestito l’espressione da un verso di Mandel’shtam) in tre parti, divise da due “controtempi”. Oppure, e questa volta prendo in prestito il termine da T. Capote, un nonfiction novel strutturato in trenta capitoli. Non è di certo un’autobiografia: io sono soltanto la voce narrante, un personaggio fra i tanti, una cronista. Non sono mai stata una partigiana del realismo (in particolare del “realsocialismo”), non ho mai tentato, coi miei libri, di insegnare o dimostrare alcunché, né tanto meno ho avuto l’intenzione di riprodurre fedelmente la realtà. Ci sono, per questo, i documenti, le fotografie ecc. La verità dello scrittore (o dell’“essere scrivente”, come preferisco definirmi) è altrove: si cerca, anche per mesi, la parola, l’espressione, la frase “giusta”. Dove c’è “giustezza” non possono esserci inganno, frode, cattiva fede.

 

Scusi la domanda scontata. Perché, nonostante tutto ciò che ha dovuto sopportare, nonostante tutto quello che racconta, ha continuato ad andare in Russia e ad amare la Russia?

 

Perché sono una studiosa di letteratura russa e non norvegese o malgascia. Perché Russia e Urss sono due cose differenti, non solo storicamente. Perché quello che ho “sopportato” è soltanto un risibile, minimo campione degli abusi, delle angherie, delle vere e proprie persecuzioni che pativano,  in un’epoca ormai “ vegetariana” ( dopo i “ carnivori”, avidi di sangue, anni Venti, Trenta, Quaranta… ), i miei conoscenti o amici russi. Ero comunque una straniera, non del tutto intoccabile, certo, come dimostrano alcune spiacevoli e spesso fisicamente dolorose attenzioni che il Kgb aveva nei miei confronti, ma ero pur sempre privilegiata rispetto a un normale cittadino sovietico. Perché amavo la Russia – i libri russi, certi paesaggi e certe anime che mi avevano affascinato, una spiritualità diversa da quella che altre letterature mi avevano rivelato – ancor prima di visitarla la prima volta.

 

Nelle ultime pagine lei scrive: “Qualsiasi cosa io oggi veda o senta, qui in Russia, mi riporta subito – ma dolcemente, senza dolore – al passato… Eppure sa Dio che non soffro di nostalgia per il potere sovietico”. Può spiegare meglio che cos’è questa sua nostalgia che non è nostalgia per l’Urss?

Nulla a che vedere con lo stolto “si stava meglio quando si stava peggio” che talvolta sento pronunciare – da russi, da italiani. Nostalgia, semmai, per un luogo dove potevo scoprire quotidianamente che nel deserto morale dello Stato ideologico e oppressivo gli esseri umani non avevano perso – non tutti, non del tutto – l’umanità, la generosità, la solidarietà, l’ansia di libertà.

 

Come lavora di solito?

 

Di notte perché c’è più silenzio intorno. Non in stato di grazia o di estasi. Sono un’artigiana della penna; scrivo e riscrivo (posso impiegare anche tre giorni  per decidere se sia meglio una virgola o un punto e virgola: al ritmo della frase dedico cure quasi ossessive) fino alla prima versione. Poi ne seguono almeno altre due, poi, ancora, correggo le bozze spesso cambiando intere frasi e facendo impazzire i redattori.

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