Come mai, nell’attuale contesto mondiale, la pace appare incapace di delineare l’orizzonte delle relazioni umane e di porsi come fattore sorgivo della convivenza sociale? Ancora in questi giorni, dall’Asia e dall’Africa giungono notizie drammatiche e sconvolgenti, immagini di guerra cariche di violenza e di orrore, immagini che rendono visibile la ferita inferta all’umano, all’ integrità della persona e al suo desiderio di relazioni e di felicità. O ancora, assopita nel ritmo della vita quotidiana, la realtà della guerra esplode all’improvviso con  notizie di morte, come nel caso dei soldati italiani in Afghanistan: Miotto, Sanna, Ranzani – per ricordare solo  avvenimenti degli ultimi mesi – diventano nomi e volti familiari proprio nell’evento tragico della loro morte, risvegliano la coscienza di una guerra sempre presente e testimoniano l’urgenza della pace.



Come è possibile che la guerra sia ancora la via scelta dalla politica? Il giudizio sull’irrazionalità della guerra è una sensibilità ormai diffusa e condivisa,  rischia però di produrre solo un pacifismo impotente, condannato a identificare la pace con progetti di imperi universali futuri, senza impegnarsi con una domanda radicale sulla pace nelle sue articolazioni – convivenza, giustizia, ospitalità, responsabilità –  e senza porre l’urgenza di  una riflessione  sull’umano.



Se “pace” è la pace degli imperi,  allora  la si può pensare solo all’interno della coppia oppositiva guerra/pace  che la vincola a trarre senso dalla stessa logica che genera la guerra e a rimanere impigliata in quella logica di dominio che è inevitabilmente motore della violenza. In questa ottica, alla pace non resta che la designazione di “assenza di guerra”. Entro una struttura di dominio, la pace non è evento di novità e di verità, cioè non si libera veramente dalla guerra, è solo la fine della guerra o l’esito di “equilibri politici” che – proprio perché equilibri – si rivelano sempre precari.



Con questa osservazione non intendo negare che la pace sia questione politica, ma evidenzio che occorre ampliare la questione, mettere in campo una ragione più comprensiva, per cogliere il senso della pace in tutta la sua ampiezza e comprenderla nel suo punto sorgivo.

Kant, dopo le guerre di espansione degli stati nazionali moderni, propone un progetto di pace perpetua perché  ritiene  che l’uomo sia in grado di costruire una  pace capace di sfidare il tempo e di ordinare le vicende umane. Sposta l’asse dal rapporto classico pace e giustizia al rapporto pace e diritto e consegna  lo stato di pace al diritto cosmopolitico. Le tragedie del ventesimo secolo hanno mostrato tutti i limiti di questo progetto e hanno messo in luce il difficile rapporto tra diritto e politica.

Appare urgente ora riflettere su questo: la pace è anche un problema della politica, la politica deve darsi come orizzonte la pace, ma occorre tener desta la consapevolezza che non ci si può attendere la pace dalla politica.  

Non si tratta di attardarsi in un appello ad un altro irenismo che ignora i metodi della politica, ma di rimettere in primo piano un’affermazione che ci giunge da una lunga tradizione – da Platone e Agostino fino ad autori decisivi del novecento – che rifiuta la pace come progetto e la consegna alla libertà di ciascuno, nel suo rapporto costitutivo con l’altro, entro un ordine di verità che ci precede.

La questione della pace oggi si impone in modo radicale, come domanda, ma anche  come aspirazione  a vivere una speranza nei legami fra uomini e cioè a credere che dei legami possano essere ospitali e dunque costruttivi nella direzione di un bene condiviso e non distruttivi  o di  estraneità. Non si può separare il problema della pace dal problema dell’esperienza del mio rapporto con l’altro: l’altro mi interpella, mi limita, ma anche  mi genera in una relazione irriducibile che l’io intrattiene con il tu, un rapporto di libertà e responsabilità che pone, nella storia, la verità dell’esperienza dell’altro.

Questa pace  non è intimistica, moralistica o  utopica, ma è un fatto conoscitivo, un giudizio rinnovato a partire non da una razionalità asfittica, ma da una ragione allargata che accoglie tutta la realtà dell’umano:  la pace non può essere disgiunta dalla verità e chiede la  ridefinizione della struttura dei propri giudizi.

Proprio nella sua articolazione con responsabilità, ospitalità, giustizia e verità, si chiarisce che la pace, solo se  investe ogni singolo uomo,  apre quel processo di relazioni che può coinvolgere un popolo, una nazione, il mondo.

All’universalismo illuminista del diritto cosmopolitico e all’universalismo economico della globalizzazione del mondo contemporaneo, occorre opporre  la pretesa che la pace del mondo sia la mia pace, la pace di ogni singolo uomo, qui e ora,  perché possa esserlo per la storia di tutti gli uomini.