Alberto Giacometti è stato l’artista umanamente più affascinante del 900. Per averne una conferma basta fermarsi a vedere la straordinaria intervista, trasmessa nel 1963 dalla televisione svizzera e giustamente riproposta su grande schermo alla mostra appena aperta al Maga di Gallarate. Lo vediamo al lavoro su tre piccole sculture contemporaneamente, con la voce dell’intervistatore che lo incalza fuori campo. Lui mostra un volto solcato da rughe profonde, quasi taglienti, ma capace di aprirsi in un sorriso pieno di ironia e simpatia. È lucido e semplice nelle sue parole. Di se stesso dice di non essere riuscito a fare la cosa che da una vita cerca di realizzare: scolpire una testa «così come la vedo». E se la critica lo incensa e gli tributa ogni onore, lui si sfila con tono quasi divertito, definendosi “scultore mancato”.
Giacometti è un figlio di quella stagione esistenzialista che aveva segnato gli anni 50 in Europa. Ma c’è un fatto che rende il suo profilo profondamente diverso rispetto al cliché dell’intellettuale esistenzialista: non recrimina mai niente rispetto alla vita, non ne discute il senso. L’inquietudine che lo pervadeva era tutta dovuta a un deficit del fare: avrebbe voluto che dalle sue mani uscisse qualcosa di più corrispondente al desiderio che lo muoveva. Fare una testa, appunto. Una testa contemporanea, che tenesse dentro la bellezza, il dramma, l’ansia e anche l’immensità dell’esistere. «Oggi, se vado al Louvre», aveva confessato, «guardo la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere… Tutte quelle opere hanno un’aria precaria, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommario, ingenuo, per circoscrivere un’immensità formidabile – la vita».
Ecco, l’immensità: può sembrare strano che uno scultore che ha passato la sua vita a plasmare figure filiformi, di un’essenzialità quasi ossea, avesse questo come orizzonte. Eppure non si capisce Giacometti se non si tiene presente che questa è ultimamente la sua prospettiva.



La mostra aperta al nuovo Museo di Gallarate e curata da un grande conoscitore dell’artista come Michael Pepiatt, ha il limite di essersi data una chiave troppo larga (“L’anima del 900”: vuol dire tutto e niente) e non aver rischiato un percorso magari più parziale, ma con qualche elemento di novità. Oltretutto l’aver mischiato le opere senza seguire una cronologia non aiuta neanche ad avere un buona comprensione a livello “didattico” di un gigante come Giacometti. Precisato questo, sono molti i motivi per cui una mostra come questa non va persa. Innanzitutto non mancano alcuni pezzi straordinari; ci sono passaggi emozionanti come la sfilata delle teste del padre degli anni 30, o l’ultima testa di Lothar. In particolare non fatevi sfuggire quel Ritratto (dipinto) del dottor Corbetta, in cui un’affettuosità verso la persona (era il medico condotto del paese di Giacometti, Stampa in val Bondasca), si unisce alla fissità così tesa dello sguardo. È un ritratto che colpisce per quella sua trasparenza, per quella specie di chiarità di orizzonte che lo contrassegna. Il che dimostra come Giacometti si muovesse non per documentare un vuoto interiore ma il suo contrario, cioè una pienezza desiderate e cercata.



Alberto Giacometti – L’anima del 900

Gallarate, Maga

Sino al 5 giugno

Catalogo Electa

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