C’è un verso delle laudi di Iacopone da Todi che gode oggi di meritatissima fortuna: “Cristo sì me tra(e) tutto, tanto è bello!”. È il verso 112 della lauda tradizionalmente numerata 90 (ma n. 89 nella più recente edizione critica del laudario, fresca di stampa presso l’editrice Olschki di Firenze, a cura di Matteo Leonardi), che inizia con l’invocazione accorata all’Amor de caritate.
La curiosità più spontanea che può venire, davanti alle parole del grande poeta religioso che sta, con Francesco, agli inizi della nostra storia letteraria, è quella di accostarsi da vicino al contesto in cui il frammento oggetto di attenzione privilegiata è inserito. Può essere anche un’occasione per tornare a misurarsi con un aspetto cruciale e per lungo tempo sottovalutato della tradizione di cui siamo ultimi eredi: cioè quello della forza suggestiva della lauda medievale come matrice della preghiera e del canto religioso, in tutto il mondo italiano del basso Medioevo e nei secoli dell’età moderna. Eppure era un problema che aveva attratto anche uno dei massimi esponenti degli studi letterari del Novecento, Natalino Sapegno (Frate Jacopone, Nino Aragno, 2001, con prefazione di Carlo Ossola), e che diversi altri specialisti, come Elena Landoni e Giacomo Jori, hanno successivamente ripreso e approfondito (a Jori, per esempio, siamo debitori di sondaggi preziosi sulle letture moderne e sulla divulgazione attraverso la stampa di Iacopone, tra XVI e XVII secolo, fino al culmine del barocco, e anche oltre).
Ma fermiamoci, qui, su Iacopone. La strofa in cui figura il v. 112 va riletta per intero: En Cristo nata nova creatura,/ spogliato lo vecchio om, fatto novello;/ ma en tanto l’amor monta con ardura,/ lo cor par che se fenda con coltello;/ mente con senno tolle (toglie) tal calura,/ Cristo sì me tra(e) tutto, tanto è bello!/ Abracciome con ello e per amor sì clamo (così chiamo, invoco):/ ‘Amor, cui tanto abramo, fanme morir d’amore!’.
Nello spazio concentrato di poche righe vediamo annodarsi alcune dimensioni fondamentali del tipo di esperienza a cui la ballata iacoponica vuole introdurre il suo devoto lettore, trascinandolo con la forza di un linguaggio aspro e vigoroso, che non concede sconti al sentimento sdolcinato.
Centrale è innanzitutto il tema della “trasformazione”. Entrando nella dialettica del rapporto con la carità di Cristo, che ci attrae con il richiamo del suo amore “superardente”, si innesca una dinamica che solo può essere poveramente paragonata al gioco della relazione dell’uomo innamorato con la sua amata. L’esito inevitabile è l’identificazione reciproca, che annulla la distanza e fa, dei due, una cosa sola. L’amore a Cristo, quando arriva a catturare il cuore della persona, la stringe a sé e non lascia più tregua. Può far diventare “pazzi”, osa immaginare Iacopone per tradurre con parole umane ciò che sfugge a una presa piena e sicura: “non posso dar figura de que veggio sembianza”. L’amore “me fa pazo gire”, “me tien en sua bailia” (nella sua signoria). Così l’uomo amante di Cristo è portato come da un vortice progressivo a immedesimarsi con l’oggetto a cui guarda: si trasforma in una realtà nuova, “quasi è Cristo” (v. 99): “En Cristo trasformata [l’anima] con Dio gionta tutta sta divina”. È da questa fusione che fiorisce la novità di una vita resa “novella”, che spacca la crosta indurita della “vecchia creatura”.
Si nota subito che il dramma del senso religioso si cala interamente nel calore infiammato dell’affettività. L’io si confronta con un Tu fisicamente percepito, con cui stabilisce una specie di corpo a corpo, che è una vera lotta per vincere la resistenza di un diaframma che separa. L’uomo credente, attirato dall’amore e dalla “bellezza” della forma in cui Cristo si rivela, è spinto oltre la “misura” dei soliti calcoli del controllo sulla sua esistenza e del suo miope egoismo. Iacopone scrive che viene “rapito”, costretto a muoversi e a ragionare entrando in una logica dominata da criteri completamente mutati (a cui si allude parlando, appunto, di “impazzimento”): “preso” dall’amore che attrae, “ferito” dal coltello che sembra tagliare in due il suo cuore, quello che conta è che l’io amante non faccia “renitenza”. Non deve mettere davanti la sua paura e lo scarto della sua iniziale estraneità.
Per accettare i paradossi verso cui è costretta a precipitare la lingua poetica di Iacopone, bisogna naturalmente evitare di giudicarla con gli schemi del nostro linguaggio razionalista e iper-intellettualizzato. Occorre un enorme rispetto: perché ci si deve cominciare a inoltrare, in punta di piedi, nel castello della grande mistica cristiana, partendo da molto lontano. In Iacopone, invece, si resta sempre aderenti alla carne della vita che pulsa. Si vuole andare subito diritti al centro, verso cui tutto converge. Ma c’è un legame di totale somiglianza che può legare ancora noi moderni alla vicenda persino vertiginosamente spericolata di un “folle per Cristo” quale è stato Iacopone (o come lo sono stati i tanti che ne hanno ricalcato le orme nei secoli successivi).
Questo elemento di unità in cui ci si può riconoscere è la chiarissima, granitica sottolineatura della dimensione oggettiva del rapporto con il Mistero infinito che salva. Nella lauda di Iacopone, come si vede molto bene nella strofa che contiene il famoso verso 112, l’accento non è messo sulla fantasia religiosa, o sul bisogno dell’uomo che si muove alla ricerca di una risposta ultima alle esigenze che gravano sul suo cuore e sulla sua mente. L’uomo risponde, o tenta balbettando di farlo. Ma l’iniziativa è di un Altro. Qui sta il cuore segreto della genialità del realismo cristiano di Iacopone. È il divino stesso che si fa presente all’uomo e lo attira, non viceversa.
Il Mistero irrompe, chiamando ad aderire: basterebbe cedere e dire di sì. Chiama e si impone non con il fascino tremendo del sacro che incute terrore, tuonando dai cieli delle antiche religioni pagane. Il Mistero con Cristo si è fatto carne, compagno alla stessa vicenda umana della persona vivente. Si fa ancora oggi incontrare: ognuno sa dire come. Si rivela con tutta la forza contagiosa del positivo, risplendendo nella gloria dei segni che ci colpiscono: con la “bellezza” di una promessa di umanità redenta, che pur dentro le piaghe delle sue ferite e del suo male antico si vede spalancata a una possibilità altrimenti inarrivabile di bene, di possesso vero delle cose, di letizia ultima e di accettazione anche del limite a cui non si può sfuggire. Prima di tutto il Mistero di chi si è sacrificato donandosi a noi ci attrae con l’“amor di caritate”, che strappa l’uomo dal suo stato di mendicante e lo riconduce alla fonte della vita vera.
A questo “amore” supremo, Iacopone scioglie l’inno travolgente degli ultimi cinquanta versi della sua ballata. È una lunga litania ritmata, nella cui ossessiva scansione introdotta sempre dalla parola “amore” il poeta dà libero sfogo al suo desiderio di essere totalmente “abbracciato” da Cristo. L’invocazione diventa un lamento ostinato, come un grido sommesso: “che sempre grida amore… Amor, amore, omne cosa clama”. Per essere “Teco trasformati”, invita a lasciarsi “rapire”, come lui ha sperimentato. “Feriti”, non resta che accettare di entrare in una prospettiva di esistenza cambiata: “famme en Te transire”. Si delinea una esperienza dell’unione, espressa nella simbologia ardita, ma quanto mai evocativa, dell’“inabissamento”, o dello sprofondamento nel flusso dell’amore che si comunica da Dio all’uomo: Amor mio desioso,/ Amor mio delettoso, anegame en amore. Quando sì smesurato me te davi, / tollevi da me tutta mesuranza (…) Tu da l’amore non te defendesti.