Prosegue con questo secondo articolo la riflessione sul tema del rapporto tra diritti fondamentali, giudici e politica, di Tomaso Emilio Epidendio e Guido Piffer, magistrati. La prima parte è stata pubblicata giovedì 24 marzo.
Sommario: 1. Premessa: l’epoca dei diritti-desiderio. 2. Il problema della proliferazione dei diritti. 3. Il giudice come tutore dei diritti: giudice classico e giudice romantico. 4. Fonti sovranazionali e argomentazione per diritti. 5. L’esempio del fine vita. 6. Il caso della direttiva rimpatri. 7. Il linguaggio dei diritti. 8. Recuperare la categoria del diritto come rapporto. 9. L’oltre del diritto: sentimento di giustizia e diritto. 10. Il rischio della tirannia dei valori e la sfida di un corretto uso della ragione.

5. L’esempio del fine vita –
Partiamo da un esempio concreto, accessibile a tutti: il problema del rifiuto dei trattamenti salva-vita che ha dato l’occasione di significative applicazioni di questa nuova forma di argomentazione giuridica.
Il punto di partenza è l’affermazione di un diritto, nella specie quello all’autodeterminazione della persona in rapporto al diritto alla salute, come diritto unanimemente riconosciuto nell’ambito dell’attività medica, fondato non solo sulla Costituzione, ma anche su varie fonti sovranazionali: tale diritto trova innanzitutto espressione nella necessità di un consenso informato del paziente perché il medico possa procedere legittimamente al trattamento sanitario.
Il diritto all’autodeterminazione è stato poi posto a base del diritto del paziente di rifiutare le cure anche se ciò comporta un rischio per la propria vita.
Infine, sempre il paradigma del diritto all’autodeterminazione è stato utilizzato per la valutazione giuridica dei casi di rifiuto del trattamento medico in atto o del rifiuto dell’alimentazione o idratazione forzata e del correlato trattamento sedativo della coscienza per il caso della loro interruzione: anche tale trattamento è divenuto oggetto di un “diritto”. Il diritto all’autodeterminazione – che assume il contenuto pratico di un una sorta di “diritto alla morte” – è stato così utilizzato ai fini dell’esclusione della responsabilità del sanitario che abbia provveduto ad interrompere il trattamento di salva-vita, con il consenso del paziente.
Si veda ad esempio la soluzione data dal gip di Roma al noto, drammatico, caso del sanitario accusato del delitto di omicidio del consenziente ai danni di Piergiorgio Welby (sent. 23.07.2007 dep. 17.10.2007): nell’occasione il giudice, muovendo dal riconoscimento del diritto a rifiutare o interrompere terapie mediche anche se “salvavita”, quale espressione del diritto alla salute ed all’autodeterminazione del paziente, ha affermato il principio secondo il quale il delitto di omicidio del consenziente non è punibile (tecnicamente: è scriminato) per l’adempimento di un dovere da parte del medico, che in presenza del consenso del paziente interrompa il trattamento al quale questi è soggetto.



Naturalmente dovendosi muovere in un campo pressoché privo di dati normativi, il giudice ha dovuto delineare i limiti di questo diritto, con un’operazione caratterizzata da una forte componente di creatività soggettiva: è stato così affermato che, per essere valido, il consenso al rifiuto di continuare la terapia deve essere: personale, consapevole e informato, autentico e non apparente, non condizionato da motivi irrazionali, non frutto di costrizione e suggestione, collegato a concrete situazioni personali del malato e non legato a superstizioni o pregiudizi.
Come spesso accade, anche in questa materia quella che abbiamo chiamato la “argomentazione per diritti”, proprio perché incentrata essenzialmente sull’affermazione di un unico interesse avvertito come preminente, rischia di mettere in secondo piano o addirittura di non prendere in considerazione altri aspetti non meno essenziali dell’argomentazione giuridica.
Innanzitutto si rischia di omettere di trattare in modo adeguato il problema dell’inserimento della soluzione proposta nel sistema giuridico complessivamente considerato: così, proprio nell’esempio fatto, passano completamente in secondo piano gli inequivoci indici normativi della volontà del legislatore di incriminare la lesione al bene della vita, anche a fronte del consenso del suo titolare (vedi ad esempio l’incriminazione dell’omicidio del consenziente e dell’istigazione o dell’aiuto al suicidio ai sensi degli artt. 579 e 580 c.p.), indici questi che imporrebbero quanto meno di esaminare approfonditamente anche la questione della legittimità costituzionale di tali norme.
Ma una superficiale e retorica “argomentazione per diritti” in questo campo rischia anche di non trattare in modo esaustivo un altro aspetto del problema: l’affermazione del diritto all’autodeterminazione ha come necessaria contropartita un dovere del sanitario di cooperare alla realizzazione di tale diritto, posto che il suo “esercizio” non può essere opera del solo titolare (e proprio un dovere del sanitario è stato affermato nella citata decisione riguardante il caso Welby). Non dunque una mera facoltà di collaborare all’interruzione dei trattamenti salvavita, si badi, ma un dovere, in quanto non avrebbe senso riconoscere la preminenza di un “diritto” se non si riconoscessero le posizioni giuridiche che servono per attuarlo, cioè per dare allo stesso effettività, il che ben evidenzia come il diritto regoli rapporti intersoggettivi (ius hominum causa constitutum est).
Così l’apparente carattere del tutto personale ed individuale dell’affermazione del diritto all’autodeterminazione svela il suo vero contenuto niente affatto “neutro” e tutt’altro che esclusivamente personale: un preciso dovere da parte del sanitario di collaborare alla morte del paziente che lo richieda e – profilo pratico tutt’altro che insignificante – l’onere per il sanitario di valutare se ricorrono i presupposti di quel diritto all’autodeterminazione, fissati non da una norma ma dalla giurisprudenza, pena la responsabilità per il delitto di omicidio del consenziente.



Ma allora ci si chiede: è possibile che un simile dovere sia opera dell’attività interpretativa-creativa di giudice? Una volta ammesso un simile dovere, non si entra in un campo di inevitabile bilanciamento di interessi che non può essere demandato al giudice ordinario anche perché sorge un non marginale problema di eventuale riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza? Sono solo alcuni interrogativi che la completezza di un’argomentazione giuridica non può eludere e che invece l’“argomentazione per diritti” tende a non far emergere.
Ben si comprende dunque, alla luce di quanto esposto, quale sia la concezione sottostante al titolo recentemente scelto da un settimanale per un articolo sull’eutanasia: “La buona morte. Non chiamatela eutanasia. È un diritto”: sarebbe difficile trovare un esempio più chiaro di “argomentazione per diritti”.



6. Il caso della direttiva rimpatri – Un altro esempio di “argomentazione per diritti”, dove  più evidente è il ruolo dell’irruzione delle fonti sovranazionali negli ordinamenti nazionali, è costituito dalla cosiddetta direttiva rimpatri (direttiva 2008/115/CE).
Tale direttiva è stata adottata nell’ambito delle competenze comunitarie in punto di armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di espulsione. Essa prevede come termine per la sua applicazione il 24 dicembre 2010. Tale termine scadeva senza che, come invero per altre direttive, venisse data attuazione. Tuttavia, la particolare attenzione al tema dell’immigrazione e alla condizione dei migranti di taluni giudici (si potrebbe dire il loro “sentimento di giustizia”), ha fatto sì che, dall’oggetto amministrativo della direttiva (la procedura di espulsione appunto), si sia passati a trarre conseguenze in altri campi, in particolare quello penale. In particolare, dopo alcuni convegni in proposito, si manifestava un certo attivismo giudiziario che si traduceva in una serie di assoluzioni dal reato di inottemperanza a provvedimenti adottati nella procedura di espulsione (si tratta del reato previsto dall’art. 14 d.lgs. n.286/98).
Si assiste perciò ad un fenomeno in forza del quale, pur in presenza di una disposizione incriminatrice non abrogata dal legislatore e non dichiarata incostituzionale, alcuni giudici disapplicano la norma penale per contrasto con la direttiva, altri disapplicano il provvedimento amministrativo (presupposto dell’illecito penale) perché ritenuto illegittimo, in quanto adottato con una procedura contrastante con la direttiva medesima, altri ancora sollevano una questione pregiudiziale interpretativa della direttiva di fronte alla Corte di Giustizia di Lussemburgo, altri ipotizzano una questione di illegittimità costituzionale della predetta norma incriminatrice, altri infine continuano a condannare, non ravvisando un contrasto tra la direttiva e la normativa interna o non ritenendo la competenza comunitaria in campo penale ovvero, più specificamente, escludendo che la direttiva abbia i requisiti per consentire la disapplicazione della norma penale interna.

Al tempo stesso si assiste ad una diminuzione degli arresti per il predetto reato a seguito di direttive impartite da talune Procure della Repubblica cui corrispondono, peraltro, le impugnazioni delle assoluzioni da parte di altre Procure. Nel frattempo le recenti vicende, connesse ai moti nordafricani e mediorientali, e ai nuovi massicci sbarchi di emigranti, producono un effetto di spiazzamento e di ricontestualizzazione del fenomeno, che riapre il dibattito anche sul piano politico ed eurounitario, rimettendo in discussione gli esiti precedenti che hanno costituito la base della ricordata discussione giuridica.
La situazione di incertezza di cui sopra – ancor più grave perché riguardante un settore quale quello penale, in cui la prevedibilità delle decisioni future costituisce un valore fondamentale a sua volta oggetto di un diritto – non è casuale e non può considerarsi come il frutto occasionale di ragionamenti viziati imputabili alla giurisdizione o alla politica, bensì è strettamente connesso alla struttura delle fonti sovranazionali e alla loro moltiplicazione, non più riducibile ai tradizionali strumenti di risoluzione dei conflitti (priorità temporale, gerarchia, competenza).

7. Il linguaggio dei diritti Sia il problema dei limiti alla proliferazione dei diritti che trova nuova linfa nella problematica delle fonti sovranazionali, sia il problema del ruolo del giudice e quindi il modo con il quale egli concepisce la sua funzione ed il suo rapporto con la legge, rivelano che in questa materia è in gioco il concetto stesso di “diritto” ed il “linguaggio dei diritti”.
Per comprenderlo è necessario prendere completa coscienza del fatto che, storicamente, l’affermazione dei “diritti individuali” è nata per occultare la posizione soggettiva passiva della quale si voleva gravare un potente: non potendo e non volendo dire che il sovrano è obbligato a fare qualcosa a favore di un suddito, si dice che quest’ultimo ha un diritto ad ottenere qualcosa: questa è la funzione retorica positiva del linguaggio dei diritti.
Noi tutti siamo abituati a pensare che se affermiamo un diritto stiamo facendo qualcosa di positivo, stiamo tutelando un debole di fronte all’oppressione di una forza che vuole predominare ingiustamente. Soprattutto ci sembra che se affermiamo e quanto più affermiamo l’esistenza di diritti, tanto più estendiamo le possibilità dei soggetti a cui li attribuiamo e, quindi, facciamo qualcosa di positivo per tutti.
Con l’affermazione della logica individualista del diritto-desiderio è emersa invece la portata retorica negativa del “linguaggio dei diritti”: essa occulta l’idea che trasformare ogni desiderio in diritto implica riconoscere un’enorme quantità di obblighi a carico di altri.
Una delle più acute e coraggiose analisi storiche, che svelano la natura in gran parte illusoria del linguaggio dei diritti, è quella che si trova in un libro, ancora poco conosciuto in Italia, del già citato Villey, nel quale coraggiosamente si sostiene: “I diritti dell’uomo sono irreali. La loro impotenza è evidente. È bellissimo vedersi promettere l’infinito; ma poi, come stupirsi se la promessa non è mantenuta!”.

8. Recuperare la categoria del diritto come rapporto – Per rispondere a queste nuova provocazione della realtà, quella dei diritti-desiderio, bisogna recuperare il vero contenuto della categoria di “diritto” e quindi della giuridicità, comprendendo che il “diritto” dei fautori dei cosiddetti diritti fondamentali non è più lo jus della tradizione occidentale, che è essenzialmente regolamentazione di un rapporto (il suum cuique tribuere).
È solo recuperando l’idea del diritto come rapporto che si svela l’astrattezza e quindi il carattere ideologico della logica dei diritti, dimostrando l’irrazionalità e l’insostenibilità di certi pretesi diritti fondamentali individuali che, per definizione, non possono riguardare solo il loro titolare, ma riguardano la trama dei rapporti nei quali il titolare del diritto è inserito. La vera battaglia culturale non si gioca dunque sul piano del catalogo dei diritti, ma sullaconcezione di diritto che si vuole affermare, cioè su ciò che è giuridico e su ciò che invece non assume rilevanza quale oggetto di discussione giuridica.
È quindi un lavoro nuovo che si apre rispetto ad ogni diritto fondamentale: quello cioè di capire se l’interesse che esso sottende assume una rilevanza tale da giustificare una sua attrazione nella sfera della “giuridicità”, cioè nella dimensione relativa alla ripartizione proporzionata di beni esteriori all’interno di un gruppo socialmente organizzato, dimensione che non è sovrapponibile interamente né a quella della morale né a quella della politica.
Come esempio possiamo immediatamente evocare il problema che si è recentemente posto rispetto all’esibizione del crocifisso, come violazione del diritto a non professare alcun credo religioso. Un modo responsabile e libero di affrontare simili questioni è quello che approfondisca tutti i livelli implicati dalle decisioni in questa materia. Occorre verificare quali sono le posizioni giuridiche elementari che compongono il diritto che si ritiene violato e se queste siano davvero compromesse dal comportamento che si lamenta essere stato perpetrato in violazione di quel diritto; quali siano le posizioni giuridiche passive correlate all’affermazione di un tale diritto; quali siano gli eventuali ulteriori diritti sacrificati dall’affermazione di quello; se sussista proporzione tra diritto affermato e altri diritti sacrificati dalle posizioni giuridiche passive implicitamente imposte con l’affermazione del primo.
Si tratta di un’indicazione metodologica, di analisi delle decisioni e di verifica delle stesse, che consentirebbe probabilmente di svelare se ci troviamo di fronte a decisioni motivate a ritroso, quelle più esposte al rischio di contaminazioni ideologiche, in quanto fondate su una conclusione già precostituita, a partire dalla quale, spesso senza particolari preoccupazioni di coerenza, si procede ad una raccolta di argomenti che, anche per vie diverse o tra loro contraddittorie, possano sostenerla. (2 – continua)

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