Un bell’articolo di Alberto Maria Banti sul Manifesto e soprattutto Corrado Augias su Repubblica mi spingono a tornare sul tema dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Come a moltissimi, anche a me è piaciuto Roberto Benigni a Sanremo nella sua lezione su “Il Canto degli Italiani” di Mameli e Novaro (il vero titolo di Fratelli d’Italia…). Ma non per questo, penso che abbia detto tutte cose vere. Ha ragione Banti, serio studioso del Risorgimento, quando ricorda che l’Italia fu organizzata da alcuni circoli di vertice, la razza padrona di allora, soprattutto contro il popolo e certamente contro la Chiesa cattolica e i contadini del Meridione. Un’Unità nata grazie ad una guerra di annessione di Re franco-piemontesi (e massoni) che confiscarono con violenza, uccisero, giustiziarono, imposero la loro legge con la forza delle armi.



E ha ancora ragione Banti quando sostiene che la sinistra italiana oggi, pur di entrare in polemica con la Lega, sposa un’idea neo nazionalista che francamente sgomenta. Scrive Banti: “Che ne è stato dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo, dell’apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati?”. Gli do ragione. Anzi, da cattolico del 2011, rifaccio la stessa domanda, rivolgendola nel mio campo. Il quesito, poi, si rafforza quando leggo su Repubblica questo titolo sopra l’ineffabile Augias: “Il Risorgimento è tornato di sinistra”. Ah, ecco. Lo stereotipo, che è in questo caso anche un falso storico, è bello che fatto.



La riflessione sui fatti della storia è sempre condizionata dal dibattito presente ma dovrebbe mantenere un’aderenza alla realtà delle cose, quantomeno di decenza. Va bene strumentalizzare tutto contro Bossi e Berlusconi ma sostenere che il Risorgimento era in realtà di sinistra ed adesso lo è tornato vuol dire negare l’evidenza. Se sinistra è ancora attenzione ai diritti delle classi meno garantite e sfruttate, se sinistra è critica all’imperialismo internazionale del denaro (vero motore del nostro Risorgimento), se sinistra è vicinanza ai “cafoni”, quel titolo è uno strafalcione storico.



A meno che Augias e c. non pensino ai governi della cosiddetta sinistra storica come quello di Francesco Crispi, che iniziarono la politica coloniale italiana contro i superterroni eritrei e soffocarono nella violenza le insurrezioni anarchiche, mettendo fuori legge il Partito socialista.

Ha ragione lo studioso George Mosse quando ricorda che i miti non si possono creare, sono sedimentati, pre-esistono nei popoli e i leder politici o le circostanze li “attivano”. Il Risorgimento italiano e patriottico (un po’ come l’Altare della Patria a Roma) viene “attivato” da Mussolini e dal Fascismo in modo indelebile ed è impossibile prescindere da questa “attivazione”, recuperandone lo spirito originale, come avrebbe voluto, anche nobilmente, ad esempio Carlo Azeglio Ciampi. E’ vero piuttosto (ma qui il discorso si fa molto complesso e molto inesplorato dalla storiografia) che esiste un altro “mito” del Risorgimento italiano, quello cattolico del primo Pio IX del 1848, di Antonio Rosmini, di Alessandro Manzoni, del federalista Vincenzo Gioberti, per certi versi anche di Giuseppe Verdi, quello dei Lombardi alla prima crociata, più popolare e forse più tradito… Se fossi uno storico, con tempo ed energia, mi dedicherei a questo Risorgimento incompiuto e alla sua mancata realizzazione.  

 

Proprio qui, su questo sito, un arguto articolo di Massimo Borghesi ha sostenuto la tesi (riprendendo anche il lavoro di Banti) che va criticata una nuova retorica della Patria e che in certo senso solo la Chiesa cattolica può offrire un significato alla celebrazione del 150esimo. La storia è sempre ironica ed è precisamente corretto ritenere che gli sconfitti del Risorgimento, la Chiesa e i cafoni meridionali, siano oggi, per ragioni diverse, i più convinti sostenitori delle celebrazioni dell’Unità. I vinti di ieri hanno oggi forti motivazioni per sentirsi italiani.

Ma al di là dell’ironica eleganza dei destini storici, c’è una questione da affrontare, molto sentita soprattutto fra i giovani: che cosa oggi tiene unita una comunità, nel tempo della giusta contaminazione fra i popoli, della globalizzazione di mercati e uomini? E’ giusto voler essere Paese e che cosa ci qualifica come tale, non chiudendoci ma aprendoci al mondo? Se il 150esimo servisse a riaprire un dibattito su questo sarebbe una gran bella festa.

Leggi anche

PORZUS/ Così quella strage ha mandato in "crisi" il Pci (e Togliatti)150 ANNI/ Perché l’"identità italiana" è una questione ancora aperta?4 NOVEMBRE/ Cos’è la patria? Piccolo discorso immaginario