L’acqua, proprio per la molteplicità dei suoi possibili utilizzi, si presenta come un bene complesso, ovvero come un bene che per meglio individuarne le intrinseche e variegate utilità dovrebbe essere attentamente scomposto e trattato come un insieme di beni finalizzati alla soddisfazione di bisogni diversi. In buona sostanza, l’acqua è al contempo un bene essenziale per la sopravvivenza e l’igiene dell’uomo, un bene idrico per scopi agricoli, e una materia indispensabile per le attività industriali.
Se questi tre diversi momenti non vengono esaminati nelle loro ontologiche diversità e l’acqua viene trattata, non solo dall’analisi economica, ma anche (e soprattutto) a livello di comunicazione e di dibattito pubblico come un bene unico e sempre identico a prescindere dall’utilizzo che ne viene fatto, allora è molto probabile che si innesti nell’analisi un circuito vizioso e menzognero che, nella vana speranza di trovare un’unitaria risposta economica, conduce a soluzioni inique e non rispettose del principio del bene comune.
L’indispensabilità dell’acqua rispetto ai tre fini individuati comporta una netta distinzione etico-sociale sulle caratteristiche economiche degli utilizzi e, quindi, la necessaria ricerca di priorità fra gli utilizzi stessi: questo sia rispetto alle somministrazioni che ai livelli remunerativi che per queste si dovrebbero sostenere avendo anche cura dei connessi profili di solidarietà e di equità.
Cosa diversa, infatti, è l’acqua necessaria per la sopravvivenza dell’uomo, dall’acqua necessaria per i fini agrari e zootecnici, dall’acqua che serve come materia indispensabile alle produzioni industriali.
La prima è un bene volto alla soddisfazione di un bisogno vitale, quindi per sua stessa natura è un bene primario. Il che non vuol dire affatto – come potrebbe sembrare a prima vista – che questo bene perda le sue caratteristiche economiche, ma che per il suo utilizzo occorre pagare un prezzo equo che sia anche funzionale e commisurato alla necessità che di esso non se ne possa fare spreco.
L’acqua per l’irrigazione dei campi e per la sopravvivenza degli animali e per l’utilizzo industriale entra a far parte di circuiti produttivi che sono protesi a collocare sul mercato beni economici di consumo (anche questi fra loro con diversa intensità sociale), che ricercano sul mercato una loro adeguata remunerazione e che pertanto dovrebbero essere in grado di fronteggiare attraverso prestabilite tariffe (magari commisurate alle necessità sociali ed economiche delle loro produzioni) il costo sostenuto per l’acquisizione e il consumo dell’acqua. In questi casi (anche se con modalità diverse tra agricoltura e industria) l’acqua è uno dei fattori produttivi necessari per la produzione e come tale deve trovare la sua remunerazione attraverso il prezzo di collocamento dei prodotti.
In altre e più semplici parole, l’acqua è un bene economico sui generis e come tale porta in sé alte complessità di indagine solutiva, ma anche una primaria esigenza sociale. Per queste ragioni deve essere economicamente gestito con la massima attenzione avendo cura di questa sua peculiarità; diversamente ogni discorso e ogni soluzione che si mette in essere per il suo più adeguato utilizzo divengono astratti e comunque non soddisfacenti.
La carenza dell’acqua è una preoccupazione ancestrale per ogni essere umano; l’uso, invece, che dell’acqua viene fatta (specialmente nei paesi economicamente più avanzati) non ha quasi mai una conseguente attenzione. Questa preoccupazione ancestrale si mette in moto, però, tutte le volte che si discute della gestione e della distribuzione di questo bene economico sui generis. Tutti e ciascuno si sentono personalmente coinvolti e forse proprio per questo il problema più che politico (nel senso che deve interessare la polis) diviene partitico, cioè inquinato da aspetti ideologici e poco attento alla complessità che questo bene economico sui generis porta in sé. Ancor peggio se di questo approccio ideologico resta vittima un malinteso senso di solidarietà sociale (anche se cristiana).
Le soluzioni gestionali, di volta in volta prospettate, sono foriere di interventi spesso più “pre-occupati” di difendere una posizione ideologica che a rinvenire nel concreto soluzioni praticabili e soddisfacenti per i diversi utilizzi richiesti a questo bene economico sui generis.
Non si può nascondere che spesso in passato (anche in un recente passato e in alcuni luoghi anche nel presente) l’acqua è stata una leva di potere sul territorio attraverso il cui “rubinetto” condizionarne l’economia, assoggettandola (e spesso perimetrandola) ad arretratezza e costringendo sotto un potere iniquo e prevaricatore del bene comune le popolazioni.
Per quanto argomentato possiamo derivare che l’acqua è un bene comune che serve per postulare anche la soddisfazione di bisogni essenziali comuni. Possiamo, in questo caso, dire che è un bene comune al servizio del “bene comune”; ma per poter essere raccolta, conservata, controllata, distribuita ed adeguatamente utilizzata (con un’espressione: gestita verso il consumo) occorre sostenere dei costi. Occorre che vi sia un’organizzazione adeguata (un’azienda) che si prenda carico e sostenga questi costi.
Questo bene comune, quindi, ha la necessità di essere “gestito” per poter essere utilizzato, e dunque diviene anche un bene economico. Gestire il processo dell’acqua verso il suo corretto consumo non è, in ogni caso, una sorta di “petrolizzazione” dell’acqua stessa. Il faro dell’attenzione, infatti, non è rivolto sul “bene”, ma, più propriamente, su come adeguatamente esso possa essere utilizzato dalle comunità interessate. L’acqua resta sempre un bene comune, ma per il suo utilizzo è necessaria una gestione tecnica, ovvero la ricerca di adeguate efficienze di tipo allocativo, produttivo-distributivo, di scelte per gli investimenti tecnologici e di risultati sociali; e il tutto ha (come chiunque può notare) risvolti economici.
È una sana gestione economica di questo tipico bene comune che risulta indispensabile affinché il bene possa essere adeguatamente utilizzato rispetto alle comunità di riferimento. Il problema (anche quello referendario a cui siamo chiamati a dare risposta) non trova soluzione efficace se gli effetti economici vengono impropriamente traslati dalla gestione (che per sua stessa natura non può che essere economica) al bene.
Non si tratta di privatizzare l’acqua, essa è e resta un bene pubblico, si tratta di scegliere se la sua necessaria gestione economica debba essere svolta, in ogni caso, direttamente o indirettamente da enti pubblici territoriali (attraverso aziende pubbliche) o se, invece, non possa essere anche svolta da aziende private sotto il controllo di privati.
Dobbiamo rispondere se, a nostro giudizio, l’indispensabile gestione economica dell’acqua sia preferibile che venga svolta da aziende private o da aziende pubbliche. Dobbiamo rispondere se per noi le efficienze sopra individuate possano meglio essere attuate dal pubblico o dal privato.