“Esiste un bene che saremmo lieti di possedere perché ci è caro per sé e non per i vantaggi che ne conseguono?”. La questione insorge in uno dei dialoghi di Platone, La Repubblica. Glaucone riflette sul bene e sul male, interroga il suo maestro Socrate. “Ho una grande voglia di sentire – soggiunge – cosa sia giusto e ingiusto e che potere hanno per sé sull’anima dell’uomo”. Perché sembra che gli uomini facciano le leggi dando “nome di legittimo e giusto a ciò che è stabilito dalla legge”. Sarebbe, dunque, questa “l’origine della giustizia e la sua essenza”?
Ecco come è posta fin dalle origini del pensiero occidentale la domanda sul fondamento della legge umana e sulla sua giustizia. Domanda, questa, quanto mai attuale. Pietro Barcellona, che si è dedicato molto a questo tema e con il quale ho condiviso le riflessioni confluite poi nel volume La lotta tra diritto e giustizia (Marietti 2008), aveva già da tempo messo il dito sulla piaga. “Mai come nella fase attuale, si è sentito da più parti il prepotente bisogno di affermare che ci sono diritti dell’uomo che gli Stati e i poteri costituiti non possono violare né sacrificare, e tuttavia niente consente più di attribuire forma e effettualità a questi diritti. […] La mancanza di ogni fondamento metafisico e di ogni legittimità trascendente rende l’ordine giuridico contingente e artificiale, privo di qualsiasi riferimento a un ordine naturale comunque riconducibile all’armonia del cosmo. Ogni comando è per sua natura arbitrario, senza giustificazione, né misura. Consumata definitivamente l’idea di fare affidamento su una qualche verità eterna e immutabile, su una qualche ragione universale, non resta che affidarsi alla labile contingenza degli accordi contrattuali e dei patti sociali, con i quali i singoli individui decidono di fissare un argine ai loro illimitati desideri” (Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Dedalo 1998).
Un siffatto atteggiamento mentale genera ogni sorta di menzogna, giacché il pensiero non aderisce più alla verità della realtà e le parole sono stravolte, puntellano un progetto sulla società il quale non ha altro punto di riferimento che il proprio potere.
“Una questione fondamentale che si pone per il sistema democratico – ha scritto Benedetto XVI quando era ancora il cardinale Ratzinger – è se la volontà di una maggioranza possa veramente e legittimamente tutto. Può essa rendere legittima qualsiasi cosa, vincolando poi tutti, oppure la ragione si trova al di sopra della maggioranza, così che non può mai diventare realmente un diritto ciò che è contro la ragione?” (Chiesa, ecumenismo e politica, Paoline 1987).
Nel famoso dialogo che ebbe a Monaco nel 2004 con Jürgen Habermas, lo stesso Ratzinger ha evidenziato l’urgenza di una nuova fondazione dell’etica e del diritto nella società contemporanea: “Il compito di porre il potere sotto il controllo del diritto rimanda, di conseguenza, all’ulteriore questione di come nasce il diritto e di come deve essere il diritto affinché sia strumento della giustizia e non del privilegio di coloro che detengono il potere di legiferare” (Ragione e Fede in dialogo, Marsilio 2005).
Come nasce dunque il diritto? Fra le risposte a questa domanda, non va sottovalutata quella di Tommaso d’Aquino. Nella sua Summa Teologica egli ha posto nella ragione dell’uomo la misura e il criterio della bontà del suo agire: “Il bene umano consiste nell’essere conforme alla ragione, e il male nell’essere contrario alla ragione” (I-II, q. 18, a. 5, c.).
Si può avere l’impressione che un asserto del genere preluda a quella autonomia della ragione che sta alla base della dottrina morale kantiana, ma si tratta, in realtà, di tutt’altra prospettiva. Ha ragione, Kant, quando afferma che il principio della moralità risiede nella ragione. Ma per l’Aquinate la ragione non va intesa come emancipata da ogni legame e quindi come istanza assoluta e indipendente, bensì come facoltà data all’uomo per conoscere ciò che è, e in quanto tale partecipe della luce intellettuale di Dio. È dunque in un senso molto particolare che la ragione umana fonda, in Tommaso, la moralità dell’agire dell’uomo: la fonda in quanto coglie con le proprie risorse naturali quella legge eterna che è l’ordine e la misura che la ragione divina dà a tutte le cose: “La ragione dell’uomo deve il fatto di essere la regola della volontà umana, e quindi la misura della sua bontà, alla legge eterna che è la ragione di Dio. Perciò sta scritto: «Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? Quale sigillo è impressa su noi la luce del tuo volto, o Signore». Come per dire: la luce della ragione che è in noi, in tanto può mostrarci il bene, e regolare la nostra volontà, in quanto è luce del tuo volto, cioè derivante dal tuo volto” (I-II, q.19, a.4, c.).
Tutto questo presuppone una fiducia nella ragione umana, come immagine di quella divina. La ragione è l’esigenza profonda e la capacità di verità e di felicità che c’è nel cuore dell’uomo e il criterio con cui misurare i mezzi necessari al suo compimento.
Le leggi umane possono dirsi giuste, dunque, “nella misura in cui si uniformano alla retta ragione” (I-II, q.93, a.3, c.). Quando esse se ne scostano, allora non hanno più la natura della legge, ma piuttosto quella della violenza.
Già Agostino, nel IV libro del De civitate Dei, aveva posto un interrogativo inquietante: “Una volta che si è rinunciato alla giustizia, che cosa sono gli Stati, se non una grossa accozzaglia di malfattori?” (Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?). Non è forse vero, del resto, che i malfattori stessi formano dei piccoli Stati? Uomini comandati da un capo e tenuti assieme da un patto comune, si spartiscono un bottino secondo una legge tacita. Se questo male si allarga a un numero più grande di scellerati, se dilaga in un’intera regione, conquista città e soggioga popoli, allora assume più apertamente il nome di regno: non certo per la rinuncia alla cupidigia, semmai per la tranquilla impunità. Questa la franca risposta che un pirata aveva dato ad Alessandro Magno. Gli sembrava giusto, aveva chiesto il Macedone, infestare i mari? Per quale motivo continuava a nuocere? E quello, con spregiudicata fierezza: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con una barca insignificante, mi chiamano malfattore, e poiché tu lo fai con una potente flotta, ti chiamano imperatore»”.
La legge umana è pertanto opus rationis: merita di essere riconosciuta e osservata se esprime un’approssimazione progressiva della ragione del legislatore a quell’ordine naturale che ha il suo fondamento ultimo nella ragione divina. È questo cammino di approssimazione che spiega la diversità di opinioni fra gli uomini circa tutto ciò che non è “giusto” – cioè iuxta rationem – con immediata evidenza.
Don Luigi Giussani ha avuto l’arguzia di dirlo con parole esistenzialmente più comprensibili ed efficaci. Ne Il senso religioso (Rizzoli 1997) conduce il lettore attraverso un’appassionante analisi introspettiva, che egli chiama “esperienza originale” o “esperienza elementare”, a scoprire cos’è il “cuore”. Esso risulta come “un complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”. Queste esigenze che emergono come evidenti alla coscienza dell’uomo, quando egli incomincia ad affrontare la realtà e conseguentemente a riflettere su se stesso, sono riconducibili alla ratio tomistica. Infatti la ragione per Tommaso d’Aquino – come abbiamo visto – è l’esigenza e la capacità di vero e di buono che c’è dentro il cuore di ogni uomo.
La modernità dell’approccio di Giussani, che affida tutto ad una evidenza interiore, mentre mira a trovare credito nel suo interlocutore, non gli impedisce di sottolineare che alla nostra esperienza elementare risulta altrettanto evidente che questo “criterio originale”, pur essendo “immanente a noi”, non ce lo diamo da noi, ma ci viene “dato” con la nostra natura: una madre eschimese, una madre della Terra del Fuoco, una madre giapponese, danno alla luce esseri umani che tutti sono riconoscibili come tali, sia come connotazioni esteriori che come “impronta interiore”. Questo criterio originale si rivela, dunque, squisitamente personale e nello stesso tempo universale.
La sistematica negazione di questo fondamento universale del vero e del giusto espone l’uomo al totalitarismo nelle sue varie forme giuridiche o politiche. Ha scritto Hannah Arendt: “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più” (Le origini del totalitarismo, Einaudi 2004). Ma l’accettazione di un fondamento metagiuridico del diritto positivo è legata a quella capacità propria della ragione umana di cogliere il vero e il buono delle cose. Pochi, oggi, sembrano disposti a sottoscriverlo. Ancora una volta, è compito dei cristiani ricordare all’uomo la sua grandezza.