L’acqua potabile, secondo il pensiero di Giovanni Paolo II, è un diritto umano elementare, come lo sono il diritto al cibo, alla casa, all’autodeterminazione e all’indipendenza (Messaggio per la giornata mondiale della pace 2003, ora ricompreso anche in Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, 365). Se l’acqua potabile è un diritto umano elementare, il suo accesso diviene il diritto mio e di tutti; ne consegue, quindi, che siamo dinnanzi ad un diritto universale e inalienabile. In quanto inalienabile nessun essere umano può esserne escluso, per cui ne deriva che l’acqua potabile “non può essere trattata come una mera merce” giacché il “suo uso deve essere razionale e solidale” (Compendio, 485).
In quanto rientrante tra i diritti umani elementari, l’acqua potabile è anche un bene pubblico “caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato” (Compendio, 485). Secondo Benedetto XVI (Caritas in Veritate, 43), la mancanza o la carenza di accesso all’acqua potabile, insieme alla carenza di cibo, di istruzione di base e di cure sanitarie (anche le ultime due carenze, evidentemente, sono da ricomprendere tra quelle che originano diritti umani elementari e universali) sono da considerarsi un “vizio della società opulenta”; sono cioè storture del sociale dovute al tornaconto e alla mancanza di solidarietà e di capacità sussidiaria.
Siamo di fronte a storture sociali che dipendono dall’aver adottato nei confronti di questi servizi e questi beni elementari un approccio squisitamente liberal-capitalista. Secondo questo approccio, infatti, il tornaconto è l’unica motivazione che supporta l’agire economico e in sua assenza si manifesterebbe, invece, disinteresse e abbandono dell’atto socio-economico con la conseguente insoddisfazione del bisogno che si sottende a quel particolare diritto elementare ed universale.
Queste distorsioni del sociale permettono la presenza e la sopravvivenza di strutture socio-economiche “viziate” perché ontologicamente contrarie al principio fondamentale postulato dalla Chiesa che è quello del bene comune, che deve essere perseguito tramite la solidarietà, la sussidiarietà, la reciprocità e la gratuità, quest’ultima (Caritas in Veritate, 36) come sovrabbondanza del “cuore” che ha intuito che la proprietà e la ricchezza non sono diritti assoluti, ma sono talenti a disposizione per il bene comune. Tutto questo accade quando il libero mercato è piegato ai soli desiderata del capitale e non sono accettate regole comportamentali che ne limitano la portata tornacontista.
L’accesso all’acqua potabile (in quanto bene pubblico), secondo la Dottrina sociale della Chiesa, origina un diritto elementare ed universale; questo diritto non può venir mai meno e deve essere sempre difeso dai cristiani, ai quali, di conseguenza e di fatto, viene demandato il compito di monitorare e verificare che esso possa essere oggettivamente esercitato da tutti, giacché esistono vie e strutture che lo rendono adeguatamente praticabile e ne facilitano l’esercizio rendendolo costantemente possibile.



Questa mi sembra essere la fondamentale preoccupazione della Dottrina sociale che soprattutto rinveniamo in quella affermazione ove si sottolinea che all’acqua potabile deve essere sempre riservata la caratteristica di bene pubblico anche quando “la gestione venga affidata al settore privato”. Non mi sembra quindi fondato, nella lettera e nella logica (così come ho cercato di argomentare in un mio precedente intervento), il problema della cosiddetta “privatizzazione dell’acqua”. L’acqua, in buona sostanza, è e deve sempre restare un bene pubblico. Il faro dell’attenzione, invece, deve essere attentamente rivolto verso le modalità attraverso le quali se ne offre l’accesso: sono queste, infatti, che debbono essere giuste ed eque. “L’utilizzazione dell’acqua e dei servizi connessi deve essere orientata al soddisfacimento dei bisogni di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà” (Mons. Mario Toso, segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace).
Non a caso la Dottrina sociale della Chiesa raccomanda che il suo “uso deve essere razionale e solidale”. Affinché l’uso dell’acqua potabile sia razionale e solidale, da un lato, occorre che la gestione dell’acqua (dal suo reperimento sino all’abitazione del consumatore finale o sino a tutti i luoghi di organizzazione collettiva che il sociale prevede: scuole, fabbriche, ecc.) sia svolta con la preoccupazione che si sta operando economicamente su un bene che è al contempo pubblico e indispensabile e, dall’altro, che il consumatore finale ne faccia un uso consapevole di trovarsi di fronte ad un bene comune e, quindi senza sperperi e sostenendo, secondo le sue capacità economiche (solidale) l’uso collettivo del bene stesso. Una gestione razionale e solidale, ma anche un uso razionale e solidale.
Per quanto argomentato (e per quanto qui interessa) sono proprio le modalità gestionali che debbono essere monitorate e verificate perché sono esse che, nella concretezza delle cose, hanno sempre (e nessuna volontà singola o collettiva può toglierle) dinamiche economiche, in quanto, per loro stessa natura, implicano costi (per investimenti e per l’esercizio) da sostenere e obiettivi di efficacia e di efficienza da perseguire; sono esse che possono, più o meno, facilitarne l’accesso a tutti per la soddisfazione del bisogno-diritto.
Il problema allora si sposta dall’oggetto (dall’acqua come bene pubblico, qualità che non può mai essere messa in discussione) alla ricerca della sua più efficace, efficiente e solidale gestione. La gestione per questo accesso all’acqua potabile, così come la totalità di tutti gli atti gestionali duraturi e sistematici volti alla produzione di un qualsiasi bene o servizio, non può che essere svolta se non da un’azienda. Solo un’azienda con gli elementi patrimoniali, finanziari ed umani di cui dispone è in grado di mettere in essere un’adeguata gestione sistematica e duratura, che vada dal reperimento di questa fondamentale risorsa alla sua più adeguata e solidale distribuzione, affinché il diritto di accesso possa essere adeguatamente ed equamente esercitato.
Siamo così di fronte a un’altra scelta: questa azienda-impresa deve essere pubblica, privata o mista? Dobbiamo stare attenti perché l’indagine economico aziendale, per definire se un’impresa è pubblica o privata, non si ferma al vestito giuridico che essa ha assunto, ma si inoltra ad individuare chi sostanzialmente è in grado di nominare la maggioranza dei consiglieri d’amministrazione. Potrebbe, quindi, capitare che in una società per azioni (giuridicamente privata), la maggioranza del capitale sociale sia di proprietà di un ente territoriale (Stato, Regione, Provincia, Comune) e che sia proprio questo soggetto pubblico a nominare la maggioranza dei consiglieri e, di fatto, a determinarne la governance, le strategie e le concrete operatività. In questi casi, sebbene giuridicamente privata, nessuno potrà affermare che l’impresa si trova sotto l’influenza e il controllo di privati.



Dobbiamo essere attenti e non fermarci al “vestito” giuridico dell’impresa, ma alla sostanza economica che la mantiene in essere e si deve altresì verificare come questa impresa pubblica, ma formalmente privata, operi ed agisca concretamente sui mercati di incetta e di collocamento e quindi quale spirito (solidale o tornacontista) mette in essere per postulare i suoi obiettivi tecnici e quelli sociali e con quanta efficacia ed efficienza operi per perseguirli. Bisogna altresì monitorare e verificare quale sia la destinazione che l’ente territoriale pubblico sceglie per gli eventuali utili che dalla gestione di quell’impresa può avere tratto. Ovviamente, questa tipologia di monitoraggio-verifica deve essere attuato anche quando l’azienda fosse totalmente pubblica, ma soprattutto – come meglio si dirà – quando sostanzialmente fosse privata.
Il variegato mondo delle possibili “forme” aziendali non è mai indifferente rispetto alla sostanza economico-sociale che si intende perseguire. Si deve altresì evidenziare che non sempre la medesima “forma” resta valida rispetto a tutte le congiunture spazio-temporali che le dinamiche dei bisogni da soddisfare, di volta in volta, sollecitano. In altre parole, non vi è sempre e in tutti i luoghi, e rispetto agli stessi luoghi in tempi diversi, un’univoca soluzione di “forma” aziendale attraverso la quale operare la più adeguata e solidale gestione. Occorre sempre ricercare quella che, congiunturalmente, meglio consente il perseguimento “razionale e solidale” dell’obiettivo.
Queste dinamiche non trovano la loro più adeguata soluzione attraverso presupposti ideologici, ma con la vigile attenzione alle congiunture e alle situazioni in cui, di fatto, si vengono a trovare gli enti pubblici, il mercato, le fattive possibilità di mettere in essere una gestione “razionale e solidale”, nonché la possibilità o meno di fronteggiare le necessità degli investimenti necessari, ecc. Occorre, in definitiva, avere uno spirito aperto ed un’intelligenza non soffocata dal pregiudizio per seguire “l’evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo” avendo presente “che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro” (Caritas in Veritate, 46).
Detto questo, non è possibile tacere un’indispensabile esigenza: tutte le volte che ci troviamo di fronte alla gestione di un bene pubblico che comporta risvolti ampi sul sociale, la sua gestione non può essere lasciata al mero arbitrio del mercato di tipo capitalistico. Afferma Mons. Mario Toso: “L’acqua ha una tale rilevanza sociale per cui gli Stati non possono demandarne la gestione ai soli privati. La gestione dell’acqua, bene pubblico, ha bisogno di un controllo democratico, partecipato. Ciò che alle volte gli Stati non riescono a fare va promosso tramite una cittadinanza attiva, in un confronto serrato con le stesse istituzioni pubbliche”.
Dal che se ne deriva che di fronte ad un bene pubblico, essenziale per la vita della persona, la soluzione per una sua gestione che poggia sulla razionalità delle scelte economiche (acquisizione dei fattori produttivi, ordinata gestione, adeguata ricompensa degli stessi fattori produttivi utilizzati) deve essere sempre temperata dalle necessità che la solidarietà congiunturalmente propone; questo è sempre valido qualunque veste giuridica o economica l’azienda rivesta.



La soddisfazione del bisogno primario deve sempre essere perseguito in maniera “razionale”, quindi senza distruzione o uso non consono delle risorse necessarie (fattori produttivi); altrimenti ne potranno essere compromessi i futuri atti gestionali, se non la stessa organizzazione e/o la sua modalità di essere; comunque dovrà essere perseguito utilizzando gli strumenti tecnico-legali più idonei (organizzazioni aziendali) che le congiunture economiche realisticamente suggeriscono. In ogni caso all’esigenza di razionalità (che si riporta all’efficacia e all’efficienza della gestione) si deve sempre accompagnare (qualunque forma giuridica abbia l’organizzazione che attua la gestione) la “solidarietà”, ovvero l’attenzione affinché tutti possano usufruire del servizio e che il “prezzo” che il singolo utente deve pagare sia prestudiato, determinato e, se necessario, “sventagliato” in ottemperanza a questo presupposto. Quest’ultimo perché “il bene comune impegna tutti i membri della socialità: nessuno è esentato dal collaborare, a seconda delle proprie capacità” (Compendio, 167).
Quello di cui si avverte la necessità, e dovrebbe essere sempre attuato, è “un controllo democratico partecipato” all’operato di queste gestioni. Ovvero si avverte l’esigenza di organismi di controllo costituiti ad hoc che siano professionalmente attrezzati e di diretta espressione democratica. Questi  dovrebbero avere la concreta possibilità di sottoporre ad un sistematico monitoraggio, in nome  e per conto della collettività, la qualità della gestione aziendale, nonché le quantità economiche con cui la gestione si esprime e a cui perviene. In buona sostanza, occorre un audit pubblico (in quanto svolto nell’interesse della collettività di riferimento) che apprezzi la bontà dei programmi, ne verifichi l’attuazione e informi sui risultati accertati la collettività ed abbia la possibilità di intervenire quando l’operatività gestionale abbia non giustificate devianze rispetto al programmato.
Questa esigenza resta sempre valida qualunque sia la veste pubblica o privata dell’azienda affinché sia costantemente e realisticamente monitorata la “razionalità” e la “solidarietà” che persegue nei suoi atti gestionali.