La storia del penitenziario femminile nella cittadina sassone di Stollberg, ex Germania Est, inizia nel 1951 quando i tribunali militari sovietici vi trasferiscono le prime detenute comuni e politiche. Nel giro di pochi mesi vengono al mondo anche 27 bambini. Uno di questi è lo scrittore e poeta Ulrich Schacht, nato nel marzo del 1951 da una tedesca e un ufficiale russo. Frutto del dramma familiare e personale di Ulrich è un libro da lui curato, I verbali di Hoheneck, che ripercorre la storia di undici donne «ospiti» del carcere, tra le quali figurano anche la madre e la moglie dell’autore.
Ai genitori di Schacht era stato negato il permesso di sposarsi, a dispetto della decantata amicizia «tedesco-sovietica». I due, perciò, nel 1950 decidono di fuggire nella Germania Federale per formarsi una famiglia. Il tradimento di un «amico» porta al loro arresto, nell’agosto 1950. La madre, al quinto mese di gravidanza, viene condannata da un tribunale sovietico a dieci anni di campo di lavoro per «istigazione all’alto tradimento». Il suo compagno viene riportato in URSS. La donna, dopo la condanna, vive un’odissea in diversi luoghi di reclusione e infine approda a Hoheneck, dove partorisce. Dice di non conoscere l’identità del padre per paura che Ulrich, figlio di un militare sovietico, venga portato in URSS. «Meglio essere guardata come una prostituta che perdere mio figlio, pensavo. Io lo sapevo bene chi era tuo padre, e questo bastava. Perché poi tu l’avresti saputo da me», confesserà a Ulrich molti anni dopo. Di lì a poco i bambini vengono sottratti alle giovani mamme, alle quali inizialmente non viene data alcuna spiegazione, soprattutto sul luogo a cui i figli sono destinati.
Le detenute di Hoheneck hanno l’obbligo di lavorare e i prodotti, soprattutto biancheria, sono poi venduti in negozi a buon mercato con l’etichetta «VEB», «azienda di proprietà popolare». Nessuno degli acquirenti sa che sono il frutto di otto e più ore giornaliere di lavoro servile, svolto in condizioni igieniche pessime e a ritmi frenetici. Ma non sono tanto le condizioni materiali a rendere difficile la vita in carcere, quanto le sofferenze psicologiche a cui le donne sono costantemente sottoposte: isolate dal mondo, non sanno nulla di ciò che le attende: «L’incertezza è una delle cose più brutte della reclusione, intacca la volontà di resistenza e di autoconservazione», afferma Jutta Giersch, pubblicista rapita nel ‘49 da Berlino Ovest da agenti dell’URSS per i suoi reportage «antisovietici». All’incertezza si sommano tanti gesti, piccoli e grandi, di cattiveria gratuita, che sembrano fatti apposta per schiacciare il cuore umano.



Anne Niendorf racconta quale sollievo fosse guardare fuori dalle finestre del laboratorio di cucito le colline e i boschi dei Monti metalliferi; ma un giorno arrivano degli uomini con un secchio di vernice e pitturano di bianco tutti i vetri. Attraverso il logoramento psicologico si vogliono rendere le detenute una massa obbediente, tuttavia, numerosi gesti testimoniano la solidarietà che c’è tra queste donne e la «rivolta umana» che, inevitabilmente, scaturisce da ogni regime oppressivo. Ad accomunare donne così diverse è «l’essere libere dalla paura», l’emergere della «natura umana».
Nel tempo libero, per esempio, molte di loro partecipano a conferenze «fai da te» su libri o film, e organizzano spettacoli teatrali come il Faust di Goethe, facendo piangere di commozione persino le secondine, o il Don Carlos di Schiller. In quest’ultimo caso il comandante delle guardie aveva chiesto di omettere la battuta del marchese di Posa: «Sire, dateci la libertà di pensiero!», che le donne avrebbero voluto invece recitare ad alta voce. Ma le attrici improvvisate risolvono il problema sostituendo la battuta con un attimo di silenzio, durante il quale le altre detenute «spettatrici», informate per tempo del cambiamento, applaudono.
Parlando di resistenza umana, è interessante osservare il modo in cui gli abitanti di Stollberg hanno vissuto la presenza del carcere nella propria città. Jutta Giersch, una fra le prime detenute, racconta che prima del loro trasferimento in città viene diffusa la voce che arriveranno delle criminali e ciò suscita paura e avversione fra gli abitanti. Ma questi cambiano subito opinione quando un uomo del posto vede nel gruppo delle prigioniere una donna che conosce bene e della cui innocenza non può dubitare. Da quel momento le manifestazioni di solidarietà non si fanno attendere. È sempre Jutta a testimoniare che a volte si avvicinavano alle mura del carcere delle persone che gridavano verso le finestre: «Tenete alta la testa!».
Nel giugno 1953 esplodono in tutta la Germania Est i moti di operai e un gruppo di dimostranti si dirige verso Hoheneck per liberare le donne. Ma gli operai vengono dispersi prima di arrivare al carcere, dal quale le ultime detenute politiche potranno uscire solo nel 1989 grazie a un’amnistia.



(l’articolo, qui in versione ridotta, è apparso su La Nuova Europa 1/11 con il titolo Hoheneck: il carcere femminile della DDR)

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