Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ silenziosa luna?…/ Mille cose sai tu, mille discopri,/ che son celate al semplice pastore./ Spesso quand’io ti miro/ star così muta in sul deserto piano,/ che, in suo giro lontano, al ciel confina;/ ovver con la mia greggia/ seguirmi viaggiando a mano a mano;/ e quando miro in cielo arder le stelle;/ dico fra me pensando:/ a che tante facelle?/ che fa l’aria infinita, e quel profondo/ infinito seren? che vuol dir questa/ solitudine immensa? ed io che sono?
(Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)
Dalla notte dei tempi l’uomo ha rivolto il suo sguardo verso il cielo stellato cercando di carpirne i segreti. Per scopi pratici: prevedere l’alternarsi delle stagioni e orientarsi nella navigazione. Ma anche per scorgere nei movimenti degli astri i segni del proprio destino e di quello dell’umanità. Lo stretto legame tra astronomia e astrologia, durato fino al XVII secolo, mostra che alla domanda «a che tante facelle?» ha da sempre fatto eco l’altra domanda «ed io che sono?».
Nella moderna visione scientifica del mondo quest’eco non risuona più proprio in quanto non-scientifica. La rivoluzione copernicana ha inoltre posto fine all’antropocentrismo, declassando tragicamente (ma anche un po’ sbrigativamente) l’uomo da centro del cosmo ad anonimo abitante di un pianeta sperduto alla periferia della via lattea, una galassia qualsiasi tra le miliardi di altre che popolano l’immensità dell’universo. Ma il successo del metodo scientifico è stato talmente grande che pochi si sono sentiti di protestare contro questo esilio forzato dell’umano dal palcoscenico della scienza.
Da qualche anno assistiamo però ad una strana specie di contro-rivoluzione copernicana che va sotto il nome di principio antropico e che gioca un certo ruolo nella riflessione cosmologica contemporanea. Per spiegare di cosa si tratti dobbiamo prima rispondere alla domanda: che cos’è la cosmologia?
Nel 1916 Einstein pubblicava la più grande opera della sua vita: la teoria della relatività generale, una nuova teoria che doveva sostituire la legge di gravitazione universale di Newton. Questa impresa lo aveva tenuto occupato per undici anni dal 1905, l’annus mirabilis in cui aveva già una prima volta rivoluzionato le idee di spazio e di tempo nella teoria della relatività ristretta. Nel formulare le sue due teorie della relatività, Einstein si era lasciato guidare più da criteri metafisici che dai risultati della fisica sperimentale. Il principio di relatività non è infatti una legge della fisica ma una legge sulle leggi della fisica, un principio di simmetria del mondo che nasce da un pre-giudizio di natura estetica: non è ammissibile che le leggi dell’elettromagnetismo abbiano una struttura diversa da quelle che regolano i fenomeni meccanici. Tale principio ha conseguenze sperimentali sorprendenti, come ad esempio il fatto che gli orologi in movimento devono rallentare; questo fatto è verificato tutti i giorni dal sistema di satelliti GPS che non potrebbe funzionare se non se ne tenesse conto. Il tempo e lo spazio non sono dunque ciò che sembrano ad una osservazione superficiale.
Questa esigenza di unità e di bellezza sta ancor più profondamente all’origine della relatività generale. Einstein era mosso dalla certezza che il principio di relatività doveva essere generale e non ristretto: doveva valere anche per la legge di gravità. Ora le conseguenze sono anche più drammatiche: lo spazio e il tempo smettono di essere il palcoscenico immutabile della fisica ma si animano e divengono attori a pieno titolo, lasciandosi plasmare dalla materia e dall’energia. Il tempo ad esempio scorre più lentamente al livello del mare, dove la forza di gravità della terra è più intensa, che in alta montagna. Sull’orizzonte di un buco nero, dove la gravità è fortissima, il tempo non scorre affatto.
Fu chiaro fin da subito che la nuova teoria poteva descrivere l’intero universo e nel 1917 Einstein pubblicò le Considerazioni cosmologiche sulla teoria della relatività generale che fondano la cosmologia moderna. Per una strana ironia della sorte, questa volta egli fu tradito dai suoi pregiudizi e non ebbe fiducia nelle sue equazioni originali; decise di modificarle aggiungendo una nuova costante della natura, detta poi la costante cosmologica. Questa “piccola” modifica rendeva possibile l’esistenza di un universo statico, uguale cioè a se stesso per tutta l’eternità del tempo.
Qualche anno dopo il matematico russo Aleksandr Fridman ed il sacerdote belga Georges Lemaître mostrarono che le equazioni originali, quelle senza costante cosmologica, avevano una conseguenza sorprendente scartata a priori da Einstein: esse prevedevano che l’universo dovesse espandersi creando continuamente nuovo spazio dal nulla. Lemaître osservò inoltre che andando a ritroso nel tempo l’espansione del cosmo si trasformava in una contrazione; in un certo istante iniziale tutta la massa dell’universo doveva essere stata concentrata in un singolo punto, “l’atomo primitivo”, prima del quale lo spazio e il tempo non esistevano. Questa esplosione iniziale è il Big Bang che crea l’universo intero: lo spazio, il tempo e la materia.
Quando l’espansione dell’universo fu osservata sperimentalmente dall’astronomo americano Edwin Hubble nel 1929, Einstein bollò la costante comologica come il più grande errore della sua vita, abbandonandola ad un destino di oblio. Ma ancora volta l’ironia della sorte era in agguato: nel 1997 alcuni astrofisici americani, osservando esplosioni di supernovae avvenute miliardi di anni fa, hanno scoperto che una strana forma di energia, molto simile alla costante cosmologica, costituisce il 70 percento del contenuto dell’universo ed è causa del fatto che l’espansione cosmica, dopo aver rallentato per alcuni miliardi di anni, ha ripreso ora ad accelerare.
E l’uomo in tutto questo? Ne La visione scientifica del mondo del 1931 Bertrand Russell sostiene che l’enorme e vuota vastità dell’universo è il segno evidente della sua ostilità alla vita. Proprio le conquiste della scienza che sono venute dopo potrebbero invece indicare che le cose stanno diversamente e che l’universo “ama” la vita.
Sono trascorsi circa 14 miliardi di anni dal Big Bang. In tutto questo tempo l’universo ha continuato ad espandersi diventando molto grande. Nel frattempo sono successe anche tante altre cose. Subito dopo l’esplosione iniziale ad esempio, gli elementi chimici necessari alla vita non c’erano ancora. Sono stati formati più tardi all’interno di un’intera generazione di stelle e dispersi per tutto il cosmo quando queste antiche stelle sono esplose alla fine della loro vita. L’intero processo ha richiesto centinaia di milioni di anni. Perché ci siano gli elementi chimici che servono alla vita è dunque necessario che l’universo sia molto vecchio e di conseguenza sia molto grande. Ma l’età non basta; serve anche un ritmo di espansione ben preciso. Se il ritmo dell’espansione cosmica fosse stato più lento, l’universo sarebbe rapidamente collassato su stesso e nessuno si sarebbe mai “accorto” di nulla. Se invece fosse stato più rapido nessuna struttura si sarebbe formata, perché l’espansione avrebbe soltanto diluito e raffreddato il gas cosmico primordiale. Nessuna stella, nessuna galassia, niente.
Neanche il giusto ritmo di espansione basta. Le leggi della fisica dipendono da un insieme di costanti fondamentali della natura. Il loro valore non è determinato in alcun modo dalle leggi della fisica stesse. Ad esempio la velocità della luce vale 300mila Km/s ma potrebbe invece valere 100 km/h e non c’è nessuna ragione a priori per scegliere un valore o l’altro. La carica dell’elettrone potrebbe benissimo essere cento volte o un centesimo di quello che realmente è.
Ora, c’è una cospirazione misteriosa tra queste costanti della natura. Se anche una soltanto di esse avesse un valore leggermente diverso da quello che ha, non potrebbe esserci vita nell’universo. Un esempio di questa sintonizzazione finissima è il modo in cui tre nuclei di elio si combinano nel cuore di una stella per formare un atomo di carbonio. Se si provasse a cambiare qualcosa, niente carbonio e dunque niente vita.
Ci sono decine di misteriose coincidenze. Brandon Carter nel 1974 le ha riassunte in un principio, il principio antropico appunto. Ci sono stati in seguito altri enunciati di tale principio, alcuni innocui, altri decisamente fantasiosi. Ma tutti stanno in qualche modo ad esprimere che tutta la struttura cosmica interviene in maniera decisiva e al contempo fragilissima affinché la vita possa svilupparsi da qualche parte nell’universo. Come se la luna ed il cielo stellato rispondessero alle domande del pastore e dicessero “siamo qui per te”.
Pur essendo nato in ambito scientifico, non si può dire che il principio antropico faccia parte della scienza né come strumento di indagine né come legge della natura. Non si può dimostrare scientificamente qualcosa sulla base dell’osservazione di coincidenze per quanto numerose. L’indagine scientifica ha infatti il compito di spiegare i fatti osservati formulando teorie capaci di prevedere altri fatti non ancora osservati e il principio antropico non è in grado di fare questo.
Le coincidenze misteriose però restano. Forse si potrebbe trovare ancora più sorprendente e infine più umana la coincidenza che c’è tra l’esigenza di bellezza e di unità del “cuore” dell’uomo e la struttura delle leggi della natura che tale esigenza rispecchiano.