Il mondo del giornalismo americano da alcune settimane segue incantato e perplesso l’evolversi di un gioco mediatico al massacro che potrebbe essere battezzato il “Bill & Arianna Show”. È uno scambio di battute al vetriolo che ha per protagonista Bill Keller, direttore del più importante quotidiano al mondo, il New York Times, e la regina dei blogger Arianna Huffington, di recente divenuta una superpotenza dei media americani con l’acquisto del suo The Huffington Post da parte del colosso Aol per ben 315 milioni di dollari. Il botta e risposta tra i due, affidato ad articoli sulle rispettive testate e a varie interviste, non è solo uno spettacolo interessante perché insolito a questi livelli dello star-system dell’informazione americana. Lo è anche e soprattutto perché fotografa, meglio di qualsiasi analisi da addetti ai lavori, le tensioni che caratterizzano l’era di rapida trasformazione del mondo del giornalismo innescata dalla rivoluzione digitale.
Keller a metà marzo ha aperto le ostilità scrivendo una “column” particolarmente aggressiva sul magazine del NYTimes, nella quale si è scagliato contro gli aggregatori di news, i siti d’informazione che prosperano con contenuti giornalistici prodotti altrove. Una modalità di lavoro, ha sintetizzato il direttore del quotidiano newyorchese, che consiste nel “prendere parole scritte da altri, impacchettarle sul tuo sito web, e raccogliere così i profitti che potrebbero altrimenti essere destinati a chi ha realizzato quel materiale. In Somalia – ha sottolineato – la chiamerebbero pirateria. Nella mediasfera viene invece ritenuto un rispettabile modello di business”.
Un attacco che contiene in sé tutta la frustrazione accumulata negli ultimi anni dei grandi organi d’informazione “tradizionali” (chiamiamoli così, per mancanza di una definizione migliore), che si vedono sottrarre contenuti e proprietà intellettuale che vengono distribuiti altrove in modo gratuito. Operazioni che Rupert Murdoch, il patron del colosso mondiale News Co., non ha esitato in questi anni a definire veri e propri furti. L’austero NYTimes, però, aveva evitato finora di scendere in campo così duramente.



Keller adesso sembra aver deciso di far sembrare Murdoch un dilettante delle critiche. La Huffington, con il suo fortunato sito, ad avviso del direttore del NYTimes è “la regina dell’aggregazione”, per aver scoperto che si possono attrarre milioni di persone con una ricetta che prevede di mettere insieme su un sito “un po’ di gossip su personaggi famosi, qualche video di gattini adorabili, dei post pubblicati da blogger che non vengono pagati, news che provengono da altre pubblicazioni, il tutto condito da una colonna sonora di sinistra”.
Fosse stato un attacco di Murdoch o della sua FoxNews, baluardo della destra americana, in pochi ci avrebbero fatto caso. Arrivando dal direttore del quotidiano dei record, espressione della New York liberal e benpensante, l’affondo contro la progressista Arianna ha lasciato senza fiato gli addetti ai lavori.
La battagliera Huffington, ovviamente, ha reagito da par suo, accusando Keller di attaccarla solo perché HuffPost ha “il 70% di visitatori unici più del sito del New York Times e aggiungendo che con la fusione con Aol il nuovo gruppo può vantare “il doppio delle pagine web viste al mese rispetto al NYTimes (1,5 miliardi contro 750 milioni)”. “Tutta invidia, Bill”, è il senso della replica della Huffington, che ha rivendicato l’autorevolezza dei propri collaboratori e accusato Keller – massimo insulto per un giornalista americano – di copiare le sue idee.
La diatriba è proseguita e continuerà a lungo, ma non è solo uno scontro tra personalità forti. Segnala invece il nervosismo che si vive nelle redazioni alla ricerca di nuovi assetti nell’era digitale. Non è un caso che il giorno dopo il primo affondo di Keller, il New York Times abbia annunciato la decisione di mettere a pagamento una parte del proprio sito web. Un passo importante, verrebbe da dire storico, che segna il punto di approdo di un sofferto cammino di riflessione nei media americani (e anche in quelli europei) sul tema di come valorizzare contenuti giornalistici di qualità, senza lasciarli semplicemente saccheggiare dagli aggregatori di news. La reazione del web alla mossa del NYTimes è stata come era prevedibile un’ampia bocciatura, guidata (con varie sfumature di pensiero) da un quartetto di autoproclamati guru della Rete che dominano il dibattito online sul futuro delle news: Clay Shirky, Jeff Jarvis, Jay Rosen e Alan Mutter.



Sull’altro fronte, in casa Huffington, mentre si consumava il duello con Keller sono venuti al pettine altri nodi, stavolta direttamente legati al mondo della rete. Huffington Post è stato per anni un laboratorio dove i blogger di sinistra hanno potuto liberamente scatenarsi, scrivendo senza ricevere alcun compenso ma ottenendo, in cambio, enorme visibilità. Adesso che Arianna Huffington è sbarcata in casa Aol ed è divenuta la responsabile di un colosso dell’informazione, molti dei suoi autori si sono ribellati. Guidati da Jonathan Tasini, blogger a sua volta con vocazione di sindacalista, hanno lanciato una class action contro la Huffington chiedendo di venir compensati con 100 milioni di dollari: un terzo del valore dell’operazione di fusione con Aol. E nei confronti della donna che li ha creati e lanciati sono stati durissimi. “Huffington Post – ha detto Tasini in un’intervista a Forbes – ha trasformato i suoi bloggers in schiavi moderni che lavorano nella piantagione di Arianna”. I ribelli hanno preannunciato che ricorreranno alla vecchia arma dei picchetti contro la manager, andando a presidiarne la casa newyorchese e trasformando la sua vita, nelle parole di Tasini, “in un inferno vivente”.
Bill contro Arianna, Arianna contro Bill, la blogosfera contro entrambi: scene dalla frontiera dell’informazione digitale, un Wild West americano che merita di essere prese sul serio. Perché l’esito di questi scontri avrà un peso importante sulle modalità con cui, in futuro, ciascuno di noi si informerà sugli eventi del mondo.

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