Terzo ed ultimo articolo di Tomaso Emilio Epidendio e Guido Piffer sul tema del rapporto tra diritti fondamentali, giudici e politica. I primi due articoli sono usciti il 24 e il 31 marzo.
Sommario: 1. Premessa: l’epoca dei diritti-desiderio. 2. Il problema della proliferazione dei diritti. 3. Il giudice come tutore dei diritti: giudice classico e giudice romantico. 4. Fonti sovranazionali e argomentazione per diritti. 5. L’esempio del fine vita. 6. Il caso della direttiva rimpatri. 7. Il linguaggio dei diritti. 8. Recuperare la categoria del diritto come rapporto. 9. L’oltre del diritto: sentimento di giustizia e diritto. 10. Il rischio della tirannia dei valori e la sfida di un corretto uso della ragione.



9. L’oltre del diritto: sentimento di giustizia e diritto – La problematica dei diritti fondamentali, dell’argomentazione per diritti, del diverso modo di concepire il ruolo del giudice (giudice classico o giudice romantico), del linguaggio dei diritti e della nozione di diritto finisce perciò per mettere in discussione la struttura essenziale del fenomeno giuridico, le peculiarità che lo rendono totalmente diverso da ogni altro fenomeno sociale: in cosa consiste tale peculiarità? Con quali problematiche profonde ha a che fare il giudice quando applica la legge? Queste domande portano alla luce l’oltre del diritto e il rapporto tra sentimento e ragione nell’attività del giudicare e nel fenomeno giuridico in generale.
Una delle caratteristiche essenziali del fenomeno giuridico consiste infatti in ciò: esso non è riducibile al mero dato normativo, ma implica necessariamente un “oltre” (cioè una dimensione metagiuridica), che variamente lo condiziona. Basti pensare – a mero titolo di esempio – che non si può parlare di diritto senza parlare di giustizia e quindi di verità, posto che la giustizia implica l’esigenza che la realtà sia adeguata alla verità che la costituisce e quindi alle evidenze che la ragione stessa coglie.
La storia del diritto è del resto storia di una complessa e drammatica dialettica tra diritto e giustizia, una dialettica che anche il giudice sperimenta personalmente tutte le volte in cui la norma che è chiamato ad applicare tende a porsi in contrasto con il senso di giustizia implicato nella valutazione del caso concreto.
Pienamente rispondente alla realtà, quale emerge anche dalla quotidiana esperienza del giudice, è dunque l’affermazione che il diritto vive di un inevitabile paradosso: il diritto è creato dall’uomo, ma esso non è interamente disponibile da parte della volontà umana, perché è soggetto ad un’inevitabile valutazione in termini di giustizia che condiziona la creazione della norma, la sua interpretazione e applicazione da parte del giudice ed anche la sua osservanza da parte dei destinatari.
Ora, in un contesto di soggettivismo e relativismo dominanti, in cui non esiste più un comune sentire in ordine ad evidenze fondamentali ed al giudizio su ciò che è “giusto”, è diventato addirittura pericoloso parlare di giustizia e di sentimento di giustizia, posto che in nome del sentimento di giustizia possono essere commesse – anche in buona fede – le più terribili ingiustizie: proprio il diritto può diventare il campo privilegiato dell’affermazione del sentimento, nel senso negativo del termine.



10. Il rischio della tirannia dei valori e la sfida di un corretto uso della ragione – Nel lavoro del giudice, così direttamente implicato con l’esigenza di giustizia che è costituiva del cuore di ognuno, il rischio sempre incombente è quello di una tirannia dei valori, cioè una tirannia del sentimento, fosse anche quello legato all’esigenza di giustizia.
Occorre avere ben presente il monito lanciato da due grandi pensatori del ’900 (Heidegger e Schmitt) sui rischi del “pensare per valori” soprattutto per il giurista e per il giudice. Si è infatti affermato che “un giurista che si impegna nell’essere un attuatore immediato di valori… dovrebbe riflettere sull’origine e sulla struttura dei valori, senza prendere alla leggera il problema della tirannia dei valori”, perché “chi dice valore vuol far valere e imporre”. Viene quindi fatto notare che “… i valori vengono posti e imposti. Chi ne sostiene la validità deve farli valere. Chi dice che valgono senza che vi sia nessuno che li fa valere è un impostore … Questo è il fatale rovescio dei valori. L’aggressività è connaturata alla struttura … del valore … L’ambivalenza dei valori fa sì che diventi sempre più virulenta non appena i valori vengono fatti valere da uomini concreti nei confronti di altri uomini concreti” (Schmitt). Del resto, già trent’anni fa il ricordato Michel Villey aveva osservato che “ciascuno dei cosiddetti diritti dell’uomo è la negazione di altri diritti dell’uomo e, se esercitato separatamente, genera ingiustizie”.
È un rischio che è sotto gli occhi di tutti e che oggi è ancora più forte per la dimensione sovranazionale dei fenomeni regolati dal diritto e la necessità del ricorso a fonti internazionali: queste fonti e i nuovi spazi di discrezionalità in tal modo aperti rischiano infatti di venire usati per affermare un sistema di valori preconcetto.
Ad esempio, un giudice nazionale che ritenga le scelte dei Parlamenti nazionali, e persino delle Corti costituzionali interne, come contrari alla propria personale scala di valori, potrà fare appello a sentenze di giurisdizioni sovranazionali (Corte europea dei Diritti dell’Uomo o Corte di giustizia dell’Unione europea o, addirittura, giurisprudenza comparata) selezionate ad hoc per sostenere una decisione che, in realtà, è già stata presa arbitrariamente dal soggetto sulla base di ragioni diverse da quelle esplicitate.



Infatti, proprio il numero delle fonti giurisprudenziali (specie internazionali), e la maggiore discrezionalità nell’estrazione della regola dal caso concreto che le caratterizzano, consentono di trovare più agevolmente affermazioni conformi al proprio sentire, che il giudice applicherà per risolvere il caso portato alla sua cognizione secondo il proprio “sentimento” (divenendo così arbitro della regola, svincolato dalle scelte legislative e dalle correlative responsabilità politiche), senza alcuna preoccupazione di sistema, cioè senza la preoccupazione di fornire risposte adeguate alla totalità dei fattori coinvolti nella decisione da prendere. Una simile operazione verrà poi frequentemente legittimata con l’esigenza di tutela di questo o di quel diritto fondamentale, senza preoccuparsi adeguatamente di tutti i diritti coinvolti nella decisione.
Sconvolge invece totalmente questo assetto l’intuizione di Luigi Giussani che collega inscindibilmente il concetto di valore a quello di ragione, senza trascurare il ruolo del sentimento. Afferma infatti Giussani: “chiameremo valore l’oggetto della conoscenza in quanto interessa la vita della ragione”, precisando subito dopo che “il valore è la realtà conosciuta proprio in quanto interessa, in quanto vale la pena”. L’analisi prosegue poi riconoscendo che “il valore dell’oggetto conosciuto … secondo la posizione e il temperamento dell’uomo, lo tocca in modo da provocare quella emozione che noi abbiamo individuato con la parola sentimento…”. Questa situazione determina certamente una difficoltà, perché “l’oggetto della conoscenza, in quanto interessa, suscita uno stato sentimentale e questo condiziona la capacità conoscitiva”. La prima reazione potrebbe essere quella di eliminare il sentimento (come si fa nelle scienze matematiche) perché si ritiene che offuschi la ragione, ma questo non è vero, in quanto  “…il problema non è che il sentimento venga eliminato, ma che il sentimento sia al suo posto giusto”.
Il sentimento del valore seleziona i beni rilevanti, quelli che la ragione deve prendere in considerazione per poter decidere (in tal senso la ragione è aiutata dal sentimento, non offuscata), ma la scelta (la decisione) va compiuta appunto usando la ragione non esclusivamente in base al sentimento o all’irrazionalità del preconcetto.

Si tratta di una tesi di grande aiuto per risolvere il problema giuridico dei rapporti tra giudice e valori. Infatti, i nuovi spazi e le nuove occasioni per una dilatazione dei poteri interpretativi e del ruolo del giudice sono ormai un fatto: la dimensione sovranazionale dei fenomeni regolati dal diritto e la conseguente insufficienza della risposta dello Stato, con il sempre più frequente ricorso a strumenti di regolazione sopranazionali, rappresentano ormai un dato acquisito, una realtà. Il ricorso alle fonti internazionali e l’istituzione di giurisdizioni sovranazionali nascono quindi da una esigenza dettata dai fatti: non si può fare finta che non esistano, né si può più tornare indietro rimpiangendo e tentando di restaurare i tempi passati e il vecchio ordine sistematico.
La mancanza di consapevolezza di questi problemi e la scarsa chiarezza dei limiti di utilizzabilità delle nuove fonti apre però nuovi spazi alla dilatazione dei poteri del giudice, con il pericolo di insinuazioni ideologiche nell’attività giurisidizionale, che sarebbe estremamente pericoloso ritenere insita in qualsiasi attività di interpretazione senza la possibilità di un suo adeguato controllo.
È infatti un’acquisizione nota quella del ruolo dei preconcetti (o dei pregiudizi) nell’attività interpretativa, ma ciò non vuol dire che ogni operazione ermeneutica sia consentita. Chiara e utile a questo proposito è la distinzione che si trova in Luigi Giussani tra un “senso positivo” del preconcetto, che è quello di rispondere ad una domanda (in questo caso il dubbio interpretativo del giudice) in base a quello che ciascuno sa ed è, e un “senso negativo” del preconcetto, consistente nell’utilizzare quella reazione come criterio di giudizio e non soltanto come apertura di domanda per il superamento del preconcetto stesso. Dal senso cattivo del preconcetto nasce l’“ideologia”, come costruzione teorico-pratica basata sul pregiudizio: si prende un aspetto della realtà, anche vero, ma in modo unilaterale e assoluto per l’affermazione di un progetto personale e arbitrario.
La sfida non è quindi quella di introdurre un nuovo moralismo che si contrapponga ad un altro (innescando una lotta o guerra tra valori opposti, di cui ciascun giudice si farebbe portatore come una delle fazioni in lotta), ma di adottare e diffondere nella giurisdizione il metodo dell’apertura alla domanda che la realtàpone, senza soluzioni preconcette e con la fiducia nella guida della ragione, nel senso più ampio di questo termine, e quindi nella sua capacità di cogliere, se correttamente usata, tutti i fattori della realtà.
Questo è il vero antidoto della riduzione del senso di giustizia al sentimentalismo, recuperando la reale e non ridotta idea di cuore come dinamismo tra sentimento e ragione, cioè – per usare una efficace espressione Maria Zambrano – di cuore come “centro in cui l’intelligenza e la sensibilità comunicano tra loro”. (3 – fine)

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