Secondo un pensiero diffuso, dietro ogni grande evento raccontato quotidianamente dagli organi di informazione, foss’anche un incidente mortale di una principessa in una calda notte d’estate a Parigi o la sconfitta ai rigori di una squadra di dilettanti, esiste sempre un qualche segreto inconfessabile o una qualche macchinazione ordita da qualcuno a danni di altri. E quasi sempre, se l’evento ha una qualche connotazione politico-economica, dietro ogni cospirazione c’è l’opera segreta di una setta o di una lobby. E, infine, quando sentiamo parlare di questi piccoli agglomerati di loschi figuri alle prese con una congiura, ci si riferisce quasi sempre all’azione segreta e sobillatrice di qualche loggia massonica o all’attività nascosta e infingarda di qualche gruppuscolo sociale appartenente al popolo ebraico. In primis, i banchieri. Meglio ancora, per la tradizione italica, se il complotto è demo-pluto-giudaico-massonico racchiudendo al suo interno, per non far torto a nessuno, tutta la teoria cospirativa di destra e di sinistra.
Se non fossero snocciolate con così tanta semplicità, queste banali affermazioni potrebbero essere facilmente scambiate con degli assiomi pseudo-scientifici, tale è la loro diffusione. Tuttavia, è necessaria almeno una precisazione. Che la massoneria operi in segreto, con finalità spesso dubbie, è cosa ampiamente nota e storicamente documentabile. Che, invece, nel corso della storia, sia esistita una lobby ebraica così potente e influente da decidere le sorti del mondo, come riporta un noto falso storico, I protocolli dei Savi di Sion, all’interno del cimitero di Praga è cosa del tutto falsa e, allo stesso modo, storicamente documentabile.
Quello che lega insieme tutto il variopinto e a volte raffinatissimo universo teorico “cospirativo” e “complottistico” sono almeno due fattori molto importanti. Il primo è la tradizione della “congiura da Palazzo”. Una tradizione “politica” che è diventata nel corso dei secoli anche un archetipo narrativo-iconografico arcinoto e presentissimo in una miriade di volumi. Una consuetudine che però è ben presente in tutta la cultura politica occidentale fin dall’alba dei tempi, e che trova il suo apice in quella dimensione ristretta e oligarchica dell’agire politico tipicamente pre-novecentesca.
Con la cosiddetta irruzione delle masse sull’agone politica, con l’aumentare dell’alfabetizzazione e con la diffusione dei giornali a larga distribuzione – in sintesi con la necessità di elaborare un discorso pubblico – entra in scena, però, un secondo fattore, fino a qualche anno fa sempre presente in ogni convegno à la page, e oggi invece caduto terribilmente in decadenza: la forza dell’ideologia politica. Ovvero la capacità di ricostruzione sociale della realtà a partire da un sistema di idee fisse e preordinate che presuppongono un inizio e un obiettivo finale, quasi sempre palingenetico e opposto alla realtà sociale di partenza. Un sistema chiuso, non aperto alla opinabilità delle teorie differenti, e che per forza di cose finisce per forzare, rimuovere e rimodulare tutti gli elementi di una qualsiasi discussione.
Modificare un’analisi empirica con un taglio scientifico-sociale (storico, sociologico, filosofico) è purtroppo una affare semplicissimo. È sufficiente togliere un avverbio e aggiungere un aggettivo qualificativo ad un qualsiasi postulato e tutto il significato di un determinato evento potrà mutare di senso. Senza parlare, naturalmente, dell’uso a volte spregiudicato e omissivo delle fonti, ovvero di tutte quelle informazioni che stanno alla base di un qualsiasi giudizio storico-politico.
Questa è la forza spropositata e, spesso, immisurabile dell’ideologia. Alla quale si unisce la potenza del mito politico, una proiezione dell’ideologia ad uso e consumo del “popolo” che rappresenta la vera novità del discorso politico-pubblico occidentale a partire grossomodo dalla rivoluzione francese, ma che assume ancor maggiore evidenza soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Potrà sembrare paradossale, ma il XX secolo è un’epoca in cui, da un lato, trionfa il sapere tecnico-scientifico, che si accompagna con una possibilità di sviluppo economico apparentemente sconfinata, e dall’altro lato, la realtà sociale e culturale viene riattualizzata attraverso linguaggi, immagini, simboli e stilemi culturali come quelli del mito, almeno formalmente derubricate a residuo di un passato arcaico e superato.
Eppure, come scrive Thomas Mann in quel capolavoro che è Considerazioni di un impolitico, quando si scaccia il “sacro” dalla porta della casa, una nuova forma di religiosità rientra dalla finestra mescolandosi con l’unico ambito pubblico rimasto, quello politico, dando vita così ad una nuova forma di materialismo religioso che si afferma attraverso le sembianze di quelle ideologie politiche del Novecento così simili in tutto e per tutto a delle religioni salvifiche. Questa forma di pensiero “forte” continua ad essere presente anche oggi, in epoca di pensiero “debole”, seppur declinata in forme diverse e convulse. In questo modo, se un evento “imprevisto”, come potrebbe essere l’11 settembre 2001, non è spiegabile con le categorie di pensiero della propria ideologia politica – spesso costruita a uso e consumo del fruitore che può comperare senza problemi nell’affollato supermarket novecentesco – entra in gioco quel processo centrale di ogni pensiero ideologico: le informazioni di quell’avvenimento vengono forzate, modificate, rimodulate e in parte omesse fino a farle combaciare con la propria visione del mondo.
Del resto, tutti i regimi totalitari che si affermarono nella prima parte del Novecento avevano bisogno di un “nemico oggettivo” a cui dare le responsabilità del proprio mancato sviluppo o dello stato di frustante minorità in cui si trovavano ad agire. In questo contesto, si riaffermarono facilmente le vecchie leggende dell’ebreo errante che si innestarono sul mito della cospirazione ebraica mondiale. Allo stesso modo, nel secondo dopoguerra, Stalin evocò continuamente lo spettro della cospirazione antisovietica: dal timore dell’accerchiamento capitalistico dell’Urss fino alla presunta congiura ordita dai medici ebrei che avrebbe minato la sicurezza della terra dei Soviet.
Si potrebbe fare un’infinità di altri esempi per quel che riguarda i regimi totalitari la cui caratteristica principale, come notò la Arendt in un splendido libretto, in realtà poco conosciuto, Verità e politica, consistette proprio nella loro capacità di dissimulazione, ovvero di usare la menzogna non solo contro il nemico, ma addirittura contro il popolo e la classe che si intendeva rappresentare.
Nelle democrazie moderne le forme di pensiero ideologico sono ugualmente diffuse, ma non appartengono quasi mai ad un regime politico, perché sono appannaggio pressoché esclusivo del ceto intellettuale o di quello politico. Se, però, per l’homo politicus questo tipo di pensiero è in parte (solo in parte) connaturato con il proprio agire che, per forza di cose, è sempre portato ad evidenziare soltanto ciò che più gli conviene, non altrettanto si può dire per gli intellettuali che troppo spesso, invece, hanno ceduto – e tuttora cedono – il passo ad un’elaborazione ideologica che, di fatto, muovendosi su binari prestabiliti, molto solidi e ben rintracciabili, riesce a fornire sempre la risposta più facile da fornire e, soprattutto, quella eticamente più appetibile.
Faccio alcuni esempi tipicamente italiani. Per decenni è stata espunta dalla nostra tradizione politico-culturale qualsiasi discussione sui “vinti” del Risorgimento e sui “vinti” della Resistenza perché, per motivi differenti e troppo complessi adesso da ricordare, non rientravano all’interno di uno schema di lettura, quello che solitamente viene chiamata vulgata, troppo spesso ideologico e agiografico. Così come, d’altro canto, sono quasi sempre rimasti ai margini del discorso pubblico, perché non combaciavano con l’immagine, diffusissima, degli “italiani brava gente”, quei fatti come l’uso dei gas in Etiopia a metà degli anni Trenta oppure l’opera di nazionalizzazione forzata compiuta nel nord-est della penisola contro la popolazione slava.
Si badi bene, non si tratta solamente di casi intellettual-accademici. Questi esempi hanno rappresentato il pensiero dominante delle élite culturali del Paese. Ovvero, di coloro che hanno formato quelle opinioni che si sono poi riversate a cascata nel linguaggio giornalistico e nella vita quotidiana e hanno dato vita alla cosiddetta “Opinione pubblica”. Andiamo a leggere, per esempio, all’inizio degli anni Settanta il dibattito sul terrorismo in Italia e su quelle che venivano chiamate “sedicenti Brigate rosse” di cui, per molto tempo, si è negata l’enorme capacità di fuoco, la grande forza organizzativa nonché la genesi ideologica in un determinato ambiente politico-culturale: quell’album di famiglia della sinistra reso celebre proprio da un’intellettuale del Manifesto come Rossana Rossanda.
Anche oggi un diffuso giudizio ideologico sul terrorismo jihadista, quasi sempre interpretato come l’azione segreta di una macchinazione occidentale, appare, da un lato, come un delirante dibattito tra alcuni intellettuali che si rifiutano pervicacemente di ascoltare e di credere a qualsiasi affermazione ufficiale – sia che provenga da una fonte governativa sia che venga diffusa da un giornale di una grande casa editrice – e, dall’altro lato, risente di tutti gli stilemi ideologici da sempre utilizzati nelle ricostruzioni “retrosceniste” o “dietrologiche”. In questo modo, l’interpretazione che è solita dipingere al Qaeda solamente come un brand o come un’opera di qualche servizio segreto occidentale ricorda molto da vicino quelle ricostruzioni, in voga negli anni Settanta, che non credevano alla reale esistenza della BR oppure sostenevano l’esistenza di “un grande vecchio” che in qualche modo rappresentasse il “potere occulto” che teleguidava il terrorismo rosso. Allo stesso modo, i dubbi che spesso vengono formulati sull’impossibilità che dei terroristi fossero in grado di saper pilotare i Boeing 747 contro le Torri Gemelle, fa venire alla mente tutti i dubbi, diffusi nel tempo, sull’impossibilità che dei brigatisti inesperti avessero potuto rapire Aldo Moro e uccidere tutta la sua scorta. E via discorrendo in una serie di lunghissime concordanze che collegano, attraverso un ideale fil rouge, tutte le cospirazioni del passato e quelle del presente. Una sorta di folclore ideologico in cui internet svolge una funzione decisiva. La rete, infatti, fornendo a tutti una rapida fruizione della notizia, senza svolgere nessun tipo di selezione e con pochissime occasioni di rettifica, contribuisce a diffondere globalmente ogni tipo di ricostruzione leggendaria o ipotesi mistificatoria. Con buona pace della realtà storica che, purtroppo, sarà sempre più noiosa, ripetitiva e banale della leggenda.