“Noi abbiamo sempre raccontato storie, fin dall’inizio della nostra specie: le storie sono il modo grazie al quale diamo un significato alla nostra vita” diceva lo scrittore americano di origine ebraica Chaim Potok nel 1999, tre anni prima della sua scomparsa. E proprio questa necessità di raccontare e raccontarsi fu la causa dei dissidi con la comunità di Brooklyn nella quale viveva. Lo dirà meglio lui stesso spiegando il cambiamento avvenuto nella narrativa contemporanea, e respingendo le accuse comuni mosse ad essa: “la tensione fra l’individuo solo che aspira alla propria realizzazione e la comunità è proprio l’argomento delle storie moderne, diversamente da quanto avveniva in passato. La vita non è semplice così le storie non sono semplici, la vita è tragica così le storie sono tragiche, la vita è piena di domande difficili così le storie sono colme di domande difficili”.
Lo si capisce bene leggendo il romanzo Il mio nome è Asher Lev. È la storia di una famiglia di ebrei chassidim Ladover di Brooklyn ambientata nell’anno 1943. Asher è figlio di Rivkeh e Aryeh Lev. Il padre è un uomo importante dentro alla comunità ed emissario del Rebbe, compie lunghi viaggi in Europa per aiutare i fratelli ebrei perseguitati da Stalin, la madre, grande studiosa (tra le poche donne iscritte all’università), aiuta il marito nel compito affidatogli dal Yoh Ribbon Olom. Il piccolo Asher è totalmente inserito nel cuore della tradizione religiosa della faglia e dei rituali che ne conseguono, ma già all’età di sei anni è un prodigio nel disegnare e Aryeh lo incita nel raffigurare “un mondo leggiadro”. Quando cadrà in depressione per la perdita del fratello, Asher disegnò per lei tanti fiori e uccelli leggiadri, ma che una volta fatti vedere alla madre non provocavano nessun miglioramento. Da li incominciò a intuire che i disegni non avevano il potere da lui sperato:
– Era un bel disegno leggiadro, Asher? – No ,mamma. Ma era un bel disegno. – Asher dovresti fare il mondo leggiadro. – A me non piace il mondo, mamma. Non lo disegnerò più leggiadro.
In tutto il romanzo avremo l’evolversi di Asher come artista grazie anche all’incontro col maestro scultore Jacob Kahn e l’ingrandirsi del disagio del padre che non vuole un figlio pittore, artista, che perda tempo con certe sciocchezze.La madre è presa tra le due forti personalità: il padre deluso e irritato, e il figlio che non può fare a meno di dipingere di mettere in pratica la grazia ricevuta. Asher capisce la sofferenza della madre divisa da questo conflitto, e nella mostra che lo consacrerà come pittore di successo la ritrarrà crocefissa alla finestra (dalla quale aspettava sempre il ritorno del marito) con a lato lui e suo padre.
Questa della crocefissione di Brooklyn è il punto nodale del romanzo ma esprime anche il cruccio costante dell’opera di Potok. Infatti Asher Lev, dipingendo questo quadro, arriva all’apice della sua arte e mette finalmente in luce tutto il suo talento, il suo modo di vedere il mondo, la sofferenza della madre. Ma così facendo rinnega la tradizione da dove proviene, si afferma come individuo ma perde la sua famiglia, il rispetto del padre e l’amore della madre.
Potok ci richiama al valore che ha l’individuo in sé stesso come emerge nella religione cristiana, però la sua formazione passa inevitabilmente da ciò che è la famiglia e la tradizione, con un rapporto altamente drammatico. E ci lascia con un ultima domanda: a cosa serve ritrovarsi come individui se poi si è perso tutto il resto? Buona lettura.