Dov’è finito il caro, vecchio ceto medio? Sembra introvabile. A Milano, che della classe mediana della società è forse la patria, non si fa altro che parlare di borghesia, di questi tempi. L’ex presidente della Regione Lombardia, il già basista Dc Piero Bassetti, le ha ridato visibilità pubblica, proprio mentre Massimo Moratti e Cesare Romiti dichiaravano pubblicamente la loro scelta in favore del candidato sindaco Giuliano Pisapia. “Borghesia ingrata”, l’ha apostrofato Roberto Formigoni. Una borghesia capace di influenza, piccola numericamente (si calcola che non superi il 6% dell’intera popolazione), ma tenace e robusta nella difesa dei suoi interessi, tanto da spostarsi bipolarmente provando (e spesso riuscendo) a trascinarsi dietro il resto del popolo. O almeno quel che basta per fare una maggioranza.
Il problema è quella parte restante, ovvero ciò che un tempo avremmo definitivo “ceto medio” e “classe operaia”. Ma se gli operai, più o meno, sappiamo ancora come son fatti, dove sono e come vivono, una grande nebbia avvolge il corpaccio centrale della società, quello che era (e forse è ancora) elemento decisivo per la stabilità sociale e soprattutto per la composizione dei governi e per le decisioni che dovranno prendere. Non a caso il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali ha affidato a un grande nome della sociologia, Arnaldo Bagnasco, un programma di ricerca molto ampio proprio sulla “questione del ceto medio”, che ha iniziato dal 2009 a sfornare analisi e che è destinato ad andare avanti per molto tempo.
Pur nella nebbia dell’incertezza, l’impressione sempre più evidente è che sia del tutto improprio continuare a parlare, come si fa in Italia almeno dagli anni Novanta, di una crisi o addirittura di un crollo del ceto medio. Ancora nei giorni scorsi i giornali hanno reagito alla pubblicazione del Rapporto Annuale Istat concentrandosi su un assai presunto (ma statisticamente non riconoscibile) arretramento delle condizioni di vita del ceto medio italiano, sempre più eroso (secondo questo teorema difficilmente dimostrabile) dalla crisi e quindi proletarizzato. E di “operaizzazione” ha invece parlato su Repubblica il sociologo Ilvo Diamanti citando una ricerca dell’Istituto Demos da cui si evince un dato: le persone che si definiscono “di ceto medio” sarebbero scese di 10 punti percentuali negli ultimi cinque anni, arrivando oggi al 43% contro il 48% di chi si sente appartenente alla classe operaia o popolare.
A fronte di questa vulgata, che assume la forma di una profezia che si auto avvera (nel senso che ogni dato viene piegato a questa teoria “a prescindere”), la realtà fattuale appare decisamente più complicata. Da oltre un decennio la diseguaglianza sociale registrata analizzando la distribuzione dei redditi è più o meno la stessa, mentre il peso degli impiegati sul totale dei lavoratori è cresciuto. E ancora, il livello di indebitamento delle classi medie appare del tutto sotto controllo, soprattutto se confrontato con quel che accade altrove. Certo, è cresciuta l’area del rischio, legata a un processo di flessibilizzazione che ha inciso soprattutto sulle professioni intermedie del terziario e sulle professioni intellettuali. Ma “rischio” non equivale a dire “crisi”.
Più correttamente sarebbe allora bene parlare di una trasformazione del ceto medio, fatto per altro non nuovo dal punto di vista storico. Già all’inizio degli anni Cinquanta Wrigh Mills descrisse la nascita di una nuova classe media, composta dai lavoratori dipendenti (i mitici white collar) che prendevano il posto centrale della società soppiantando la piccola borghesia proprietaria. Oggi non c’è un cambio della guardia, ma un rimescolamento delle carte, o meglio ancora una frammentazione, che spinge ancora più in profondità un processo iniziato negli anni Ottanta, quando iniziò a distinguersi tra una classe media rampante (ricordate gli yuppies?) e un ceto medio riflessivo e progressista.
Oggi i ceti medi sono tanti e non puntano più tutti nella stessa direzione, seppur condividano ancora stili di consumo abbastanza simili. C’è un ceto medio di lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e partite Iva, di professionisti e artigiani, al cui interno però persistono differenze molto forti in termini di reddito, stabilità lavorativa, gestione dei rischi e prospettive di sviluppo. E ce n’è un secondo di lavoratori dipendenti, impiegati e dirigenti. Ma anche dentro questo raggruppamento le cose non sono così semplici, perché appare sempre più evidente la contrapposizione tra dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico, interessati da rischi sociali dissimili e portatori di interessi talvolta contrapposti.
Insomma, ci sono almeno tre “ceti medi” che riproducono sistemi di interessi, rappresentazioni del bene comune, stili di vita non più riducibili ad una impossibile unità. Tanti ceti medi, insomma, non più riconducibili ad un profilo socio-economico omogeneo, ma spezzettati e diffusi. Ceti medi che perdono proprio per questo la possibilità di essere riconducibili ad un unico punto di riferimento politico, e si distribuiscono tra i poli, anche rispetto alle loro provenienze territoriali. Frammentati anche politicamente. E per questo, probabilmente, più deboli, meno rappresentabili. E per questo, meno influenti.