L’idea chiave dell’immortalità segna in profondità la visione cristiana: ma questa constatazione va accompagnata dalla consapevolezza che anche l’esperienza della mortalità è al cuore del cristianesimo. E d’altra parte proprio questa combinazione ne rappresenta forse la cifra più profonda: coscienza della finitezza e apertura alla trascendenza sono fattori irrinunciabili della dimensione umana, così come di quella cristiana.
È sufficiente perdere di vista tale equilibrio per costruire un’antropologia sbilanciata. Nell’odierna epoca della modernità tecnica un esempio significativo ne è l’equivoco postumanista (o talvolta, con sfumatura diversa, transumanista), che si riallaccia comunque a tendenze antichissime e probabilmente ineliminabili. La tentazione gnostica consiste storicamente, tra l’altro, nella volontà di prescindere dalla corporea finitezza del genere umano e dunque di fuoriuscire dal duplice vincolo, sottratto alla nostra disponibilità, della nascita e della morte. Oggi, quella tentazione riemerge in un’accattivante veste tecnologica.
I teorici contemporanei del postumano sognano apertamente l’immortalità: non attraverso faticose ascesi spirituali o complesse pratiche rituali, men che meno attraverso un fiducioso affidamento alla speranza, ma ad esempio grazie alla possibilità di riversare il contenuto della propria mente, dunque dell’identità, in software infinitamente riproducibili e replicabili; oppure grazie a nanotecnologie in grado di riparare virtualmente ogni danno cellulare. Anche la nascita dovrebbe diventare un progetto impiantato in modo impeccabile, sottratta a quel tanto di libero, imprevisto, e imperfetto che sopravvive nel venire al mondo naturale; così come la sua artificialità dovrebbe significare l’abolizione dell’ultima evidenza della differenza sessuale tra uomini e donne. Si possono trovare queste e simili idee in tutta un’ampia letteratura: rimando ad esempio alle opere, in parte tradotte, di Ray Kurzweil, Nick Bostrom, o Eric Drexler. In Italia, un intellettuale di punta che ha sdoganato il movimento è Aldo Schiavone nel suo Storia e destino (2007).
Poco conta che tali prospettive siano ancora parzialmente fantascientifiche. Esse hanno il prestigio persistente della veste scientificamente accreditata, il fascino del futuribile ormai prossimo a realizzazione che da almeno due secoli incide in profondità nell’immaginario dell’Occidente. Per questo motivo si prestano a funzionare come sostituti ottimali di altre ideologie dell’Uomo Nuovo, sanguinosamente tramontate. Già negli anni ’20 e ’30 vi fu una costellazione di temi affini, in cui si mossero, per tacer d’altri, alcuni autori sovietici (Aleksandr Svjatogor o Konstantin Ciolkovskij, al seguito dell’antesignano Nikolaj Fëdorov; ma osservazioni simili si trovano in figure di primo piano della rivoluzione e per il resto agli antipodi come Bucharin o Trotsky), così come un intellettuale come  Julian Huxley, che fu il primo presidente dell’Unesco ma anche un teorico dell’eugenetica e infine l’inventore dello stesso termine “transumano”. Come ha sostenuto a Parigi, in occasione del recente Cortile dei Gentili, Fabrice Hadjadj, il conio del nuovo termine aveva anche il senso di riproporre nel dopoguerra il nucleo per così dire “progettuale” dell’eugenetica in una veste meno compromessa con quanto era accaduto.



Non è un caso che nell’epoca delle utopie gli intellettuali pensassero che la prospettiva davvero rivoluzionaria imponesse di oltrepassare non solo socialmente ma anche ontologicamente la condizione umana. È una vicenda non troppo nota, ma davvero emblematica e a modo suo coerente: perché accontentarsi della rivoluzione politica, che in fin dei conti, ritengono questi autori, non incide in profondità sulla spina oscura della condizione umana? Solo l’abolizione della morte consentirà di aprire davvero il paradiso socialista, ove non vi saranno più motivi di conflitto. Indubbiamente la matrice parareligiosa delle ideologie del XX secolo viene così confermata: la motivazione autentica del fascino di tali ideologie, infatti, non è l’aspettativa sociale, ma la soggiacente, ambiziosa promessa di autentico rivolgimento dell’antropologia.
Ma proprio questo è il punto che le rende particolarmente insidiose. L’equivoco sta per l’appunto nella promessa di salvezza, che rende sempre così accattivanti, nel corso della storia, le visioni gnostiche. È significativo che la tradizione teologica talvolta avverta la seduzione di tali idee: per un esempio si veda L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena (Bologna 2009), di Andrea Vaccaro. Questo libro compie un’interessante ricognizione degli spunti presenti nelle tendenze menzionate e ha buon gioco nell’evidenziarne i lati millenaristici; ma tende a sottovalutare il senso fondamentale dell’ideologia postumanista: la costruzione tecnologica dell’immortalità non è solo in diretta concorrenza con la visione cristiana, ma soprattutto con la prospettiva di autentica ovvero infinita ed assoluta felicità che essa indica quale portato profondo dell’immortalità. Come osserva lo stesso Vaccaro, l’immortalità meramente sommativa e la felicità derivata dalla massimizzazione utilitaristica dei postumanisti non hanno nulla a che fare con la visio Dei ossia con la vera e propria beatitudine trascendente. Cristianamente non si tratta di vivere per sempre nel senso della cattiva infinità, ossia di una ripetizione all’infinito del nostro stato attuale; ma di spingersi fino al godimento dell’Infinito. È tutt’altra cosa rispetto all’immortalità promessa dai postumanisti. Lo scambio tra un infinito e l’altro, per così dire, attraverso un’immortalità come mero vivere-per-sempre assunta come esaustiva del senso profondo della ricerca umana, è operazione ideologicamente significativa, nel suo riduzionismo, e antitetica ad uno spazio propriamente religioso. Preservare il bilanciamento tra sforzo dell’immortalità e antropologia della finitezza implica proprio questo: non la fuga in avanti dell’utopia tecnologica postumanista, che attualizza la fuga in avanti dello gnosticismo, ma la consapevolezza che la finitezza attiene alla natura profonda e non episodica dell’uomo, e che proprio per questo la trascendenza ne è la soluzione metodicamente adeguata.

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