Caro direttore,
Ho incontrato don Luigi Giussani a 17 anni, e l’incontro con il suo carisma è stato per me l’incontro determinante della mia vita: plasmando la mia intelligenza e il mio cuore, mi ha fatto diventare quello che sono oggi. Ma don Francesco Ricci ha incontrato don Giussani quando era già un prete, e non alle prime armi. Don Francesco era certamente l’insegnante di religione più conosciuto della sua diocesi, con responsabilità precise sul piano culturale e pastorale; responsabile dei giovani di Azione cattolica, aveva ottenuto riconoscimenti espliciti anche dalla direzione nazionale di Roma.
Eppure, io l’ho visto immedesimarsi integralmente nell’incontro con don Giussani e seguirlo con l’ardore di un ragazzo, lo stesso ardore che in quella grande esperienza mettevamo noi giovani; seguirlo con passione, cercando di identificarsi con le sfumature del suo pensiero e della sua personalità, ma al tempo stesso seguirlo con tutta la grandezza della propria intelligenza e del proprio cuore, implicando e rinnovando in questo incontro tutta la sua tradizione culturale e religiosa di provenienza.
È stato per me, per anni e anni, un esempio di quello che significa la sequela: la sequela come condizione di creatività personale e di creazione ecclesiale, culturale e sociale. Altri due amici sono stati testimoni di questo, e li ricordo anch’essi con tanta commozione: don Francesco Ventorino, di Catania, e don Pino De Bernardis, di Chiavari.
Il “carisma”, se così si può dire, di don Francesco Ricci era la sua straordinaria capacità di svolgere, attuandole, tutte le implicazioni culturali e sociali contenute nell’esperienza della fede e nella vita della comunità e del movimento di Cl. Era capace di portare alla luce, sviluppandolo con assoluta chiarezza, tutto ciò che era implicito; lo faceva diventare consapevolezza critica, movimento dell’intelligenza e del cuore, fino a determinare forme nuove di conoscenza e di azione. In questo continuo lavoro, Ricci aveva una straordinaria capacità di dialogo e di incontro con le posizioni anche tematicamente distinte, quando non ostili all’esperienza cristiana.
Egli è passato come un ciclone su tre continenti. L’Europa: fu il primo ad intessere rapporti sistematici con quella che allora veniva chiamava «la Chiesa del silenzio» e ad aprire a noi, giovani dell’occidente, il «grande polmone» – come lo avrebbe chiamato Giovanni Paolo II – con cui abbiamo respirato la grandezza di quella teologia della sofferenza e di quel sacrificio del silenzio. Abbiamo avuto modo di conoscere una nuova e inedita capacità di presenza cristiana, una testimonianza preziosa e capace di rianimare la nostra Chiesa d’occidente, così chiusa in se stessa e così timida nei confronti del mondo laicista.
E poi l’America latina, nella quale don Ricci ha acceso possibilità di incontro e di dialogo con i maggiori intellettuali e sindacalisti cattolici, realizzando una trama di rapporti che sono serviti a costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti: in loro, e in tutti quelli che in Italia incominciavano a interessarsi da cristiani della vita privata e pubblica, del lavoro e della società.
E poi ancora, da ultimo ma in modo non meno importante e significativo, seppe incontrare i bonzi giapponesi, che portò più volte al Meeting di Rimini e con i quali riuscì ad intessere un dialogo basato sul senso religioso, ma aperto, come auspicava don Giussani, alla possibilità dell’incontro con Cristo.
In questa instancabile capacità di realizzare cultura e su di essa di operare incontri, dialoghi e collaborazioni, fioriva innanzitutto un rispetto assoluto per la verità che gli era stata consegnata nelle mani e nel cuore dall’esperienza della Chiesa. Ma proprio in forza di questa assoluta fedeltà alla verità, era capace di un rispetto incondizionato della persona con cui dialogava e di cui si faceva carico, fino ad assumersene anche i bisogni materiali. Ricordo certi viaggi, fatti insieme a lui al di là della «cortina di ferro» – in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria – nei quali, in compagnia di appassionati uomini di cultura, fiorivano alla sera, dopo cena, imprevedibili possibilità di nuovi rapporti; ma questo poteva avvenire, il più delle volte solo perché don Francesco aveva portato con sé dall’Italia le vivande di cui nessuno, là, poteva disporre. Non poteva esserci dialogo senza una convivenza, e non poteva esserci convivenza senza la possibilità di sedersi attorno a un tavolo e mangiare insieme. E per i nostri ospiti era magari la prima volta che mangiavano dignitosamente dopo mesi…
Una grande personalità quella di don Ricci, che ha potuto esplicitare in maniera assolutamente significativa la forza culturale della fede, la sua capacità di giocare nel mondo di oggi la sua originale e specifica responsabilità. Egli fu per questo creatore di infiniti ponti culturali, che hanno segnato la ricchezza e l’esperienza del movimento e della Chiesa occidentale e l’hanno messa in rapporto con chiese che altrimenti sarebbero rimaste chiuse in una lontananza che non poteva essere superata. Questo è stato Francesco Ricci per la nostra generazione.
Il convegno che abbiamo proposto due anni fa, e di cui gli atti hanno appena visto la luce, è certamente un vigoroso tributo di memoria e di gratitudine, ma insieme è anche un tentativo di servire le nuove generazioni, che rischiano di affrontare il presente senza un’adeguata coscienza del nostro passato. Chi non conosce il nostro passato e i suoi protagonisti, rimarrà certo più debole e vulnerabile da parte della mentalità anticattolica che condiziona, in maniera così rilevante, la società in cui viviamo.