Negli anni in cui Gesù predica in Palestina, tutta l’area prospiciente il bacino del mar Mediterraneo si trova sotto il dominio di Roma. La pienezza dei tempi si sposa con un periodo di pace e di prosperità. Con Augusto, il primo imperatore, Roma si sta faticosamente riprendendo da decenni di guerre civili. Dalla penisola iberica al Caucaso, dalle pianure del Reno alla valle del Nilo, l’impero romano occupa un territorio vastissimo: mai più nella storia una così gran parte dell’Europa (e non solo di questa) resterà per così tanto tempo unificata in una unità amministrativa.



La grandezza e la stabilità di questa compagine davano al cittadino romano un’impressione di grandezza e di orgoglio. “Glorioso sole, che col tuo carro lucente ci porti il giorno e nasci sempre uguale e diverso, possa tu non vedere nulla più grande di Roma” canta Orazio nel Carme secolare, un inno destinato a celebrare la grandezza di Augusto. Il suo contemporaneo Virgilio, che già in un celebre carme aveva preconizzato il prossimo ritorno dell’età dell’oro sulla terra, nell’Eneide esprime con queste parole i caratteri fondamentali della politica romana: “Altri lavoreranno il bronzo meglio di te (almeno credo) e saranno capaci di trarre figure dal marmo … Tu Romano, ricorda di governare col tuo dominio i popoli (questa sarà la tua arte) e di imporre una regola alla pace, di essere clemente con chi si sottomette e di debellare i superbi”.



Propaganda di regime, si potrà obiettare, ma sarebbe un giudizio complessivamente parziale. Certo questa visione della missione pacificatrice di Roma corrispondeva ai canoni della propaganda augustea, ma vi è anche un’adesione sincera e fiduciosa a questa linea. Un dato di fatto mi sembra che si possa proporre con discreta sicurezza. Roma non era arrivata a estendere il suo dominio su un territorio così vasto in séguito a una deliberata volontà di conquista o a sete di potere. Roma dovette combattere una lunga serie di guerre prevalentemente difensive contro nemici sempre più potenti, e queste guerre vittoriose contribuirono a rendere il modesto villaggio fondato sulle rive del Tevere prima una potenza locale, poi uno Stato sempre più potente.



In secondo luogo, al di là dei triti luoghi comuni che si sentono ripetere sull’imperialismo romano, Roma diede alle terre conquistate un’amministrazione nel complesso equilibrata. Nel 1884, il grande storico di Roma Teodoro Mommsen scriveva all’inizio del volume dedicato alla storia delle provincie romane le seguenti parole: “Nelle città rurali dell’Africa, nelle fattorie dei vignaiuoli della Mosella, nelle valli della Licia e sul litorale deserto della Siria, ecco dove è da cercare l’opera dell’impero e là essa si ritrova. Ancor oggi esistono regioni dell’Oriente e anche dell’Occidente, per le quali l’epoca imperiale costituì un grado di buon governo, di per sé non altissimo, ma che non venne mai uguagliato. Se infatti l’angelo dei Signore volesse fare un bilancio, e vedere se i costumi e la sorte dei popoli in generale dopo quell’epoca abbiano progredito o addirittura regredito, è molto dubbio se il giudizio ci sarebbe favorevole”.

Roma, se per secoli non ebbe personalità capaci di creazioni artistiche allo stesso livello dei Greci, elaborò una cultura del diritto e dell’amministrazione che avrebbe segnato la storia successiva. La politica interna ed estera, i rapporti tra pubblico e privato, i rapporti col sacro, tutto era regolato da norme precise che prendono il nome di ius. Vi sono principi che valgono per tutti gli uomini (lo ius gentium) e vi sono norme che riguardano il cittadino romano, il civis Romanus. In questa parola non è compresa solamente una nozione di carattere amministrativo, perché all’idea della civitas, della cittadinanza, si associa l’idea dell’humanitas: il civis Romanus rappresenta l’homo humanus, l’uomo che realizza la pienezza delle potenzialità umane. Ristretta originariamente ai soli abitanti di Roma, la condizione di cittadino Romano fu estesa col passare dei secoli a un numero sempre più vasto di persone: cittadini Romani divennero prima gli abitanti dell’Italia e poi, con un editto emanato dall’imperatore Caracalla nel 212, tutti i cittadini dell’impero. “Hai fatto di tutto il mondo un’unica città”, dirà qualche secolo dopo un poeta (Rutilio Namaziano) parlando dell’operato di Roma.

Per quanti difetti si possano vedere nell’organizzazione statale di Roma, è innegabile che questa si evolve in senso sempre più democratico: le differenze sociali, inizialmente esasperate, si stemperano col tempo: nella respublica a ogni cittadino è permesso (almeno teoricamente) di accedere alle cariche più alte dello Stato. Naturalmente la costituzione romana non è esente da difetti (come non lo sono probabilmente neppure le costituzioni moderne), ma le garanzie che essa offre ai cittadini sono ampie. Anche agli schiavi, la cui condizione era inizialmente priva di tutele giuridiche, vengono progressivamente riconosciuti dei diritti e delle garanzie.

Certo ci furono episodi di corruzione e scandali, e per molti personaggi inviati a governare le province l’esercizio del comando poté essere occasione di arricchimento e di ruberia, ma pur sempre entro certi limiti: un comportamento eccessivamente vessatorio nei confronti dei provinciali era sanzionato con leggi severe, come dimostrò lo scandalo di Licio Cecilio Verre, processato e costretto all’esilio per le malversazioni compiute in Sicilia.

Non ci soffermiamo sui problemi del rapporto fra impero e Cristianesimo, perché questi hanno un carattere tutto speciale che qui non potremmo affrontare.

Per dimostrare che la politica Romana non fu nel complesso oppressiva con le regioni conquistate, mi limito all’esempio della politica linguistica. Roma non impose mai con la forza il latino, anche se naturalmente questo era normalmente usato come lingua dell’amministrazione. Le molte lingue di quel crogiolo etno-linguistico che era l’Italia antica furono progressivamente sostituite dal latino, che divenne poi anche la lingua dell’Europa occidentale e dell’Africa settentrionale. Nella zona orientale dell’impero, dove si era ormai affermata da tempo una lingua veicolare di cultura (il greco), il latino non divenne la lingua egemone. Se i Galli e gli abitanti della penisola iberica, che pure avevano dato per parecchio tempo filo da torcere ai conquistatori romani, accolsero il latino, non fu in forza di un decreto (anzi, le leggi romane permettevano di redigere gli atti giuridici privati nelle lingue locali), ma in forza del prestigio che la lingua e la cultura di Roma aveva. Nella Gallia conquistata da Cesare possiamo seguire passo passo questa opera di romanizzazione sempre più in profondità: i Romani aprono scuole nella Gallia, e a queste scuole si iscrivono i rampolli dell’aristocrazia celtica, che nella prima generazione hanno accanto al nome celtico anche un nome romano, e nelle generazioni successive avranno soltanto il nome romano. L’uso della lingua locale si fa sempre più rarefatto, fino a scomparire del tutto, e alla fine, se si escludono alcune aree particolari (come la regione basca), tutta la zona occidentale dell’impero finisce per parlare latino.

Quando, con la dissoluzione dell’impero, molte popolazioni straniere si stanziano nelle province, si ha un periodo iniziale di turbolenza, a cui segue una fase di assestamento e infine l’assorbimento dell’elemento germanico da parte dell’elemento latino: Goti, Franchi, Longobardi, Vandali alla fine parlano latino. Anche la predicazione cristiana ha il suo peso in questo singolare processo di assimilazione dei vincitori ai vinti.

In un celebre passaggio della tragedia Adelchi il Manzoni parla dei latini come di un “volgo disperso che nome non ha”: sono gli anni della dominazione longobarda (VIII secolo), l’elemento latino è sottomesso, e dei monumentali edifici delle città romane non sopravvivono che ruderi cadenti. Ma l’asservimento politico non si traduce in una soggezione culturale: troppo forte è il divario: tra le due lingue (latina e longobarda) sarà la prima a prevalere, mentre della seconda non rimarrà che qualche brandello di parola. La stessa legge dei longobardi (l’editto di Rotari del 643) è in latino, si ispira in molti tratti al diritto di Roma, ed è valida unicamente per la popolazione germanica, perché la popolazione latina continuerà a essere regolata dal codice di Giustiniano, che raccoglie la legislazione romana.

Tutt’altra sorte ebbe l’Africa settentrionale, una zona la cui vivacità intellettuale è documentata dalla lunghissima lista di grandi personalità della cultura latina che qui erano nate (pagani come Apuleio e cristiani come Agostino). La conquista araba ebbe carattere radicalmente distruttivo: rase al suolo le chiese, costretti a tornare nelle catacombe i cristiani, e la lingua romanza che si stava sviluppando nella zona (il cosiddetto afro-romanzo) non ebbe nessuna possibilità di svilupparsi.