Le Corde dell’Anima è una metafora consolidata e complessa. Si potrebbe dire, in poche parole, che riesce a rappresentare sia il principio vitale, libero ed immateriale che spira in ogni essere umano (come vuole l’etimologia di “anima” dal termine greco per “vento”: anemos), sia la sua creativa e concreta funzionalità di strumento, la sua capacità di risuonare ponendosi al servizio di chi o di cosa (entrambi, a seconda dei casi, con l’iniziale maiuscola o minuscola) conosca i segreti della sua costruzione, sappia sollecitare – appunto – le sue corde e possegga il suo misterioso ma universale linguaggio.
È una metafora coltivata nei secoli dei secoli, non un “nuovo conio” dei nostri giorni, e proprio da questa preziosa longevità trae il suo costante fascino e la sua incrollabile attualità. A volerne esemplificare le innumerevoli manifestazioni, basterebbe sondare la straordinaria vicenda dei rapporti tra cultura letteraria e cultura musicale – che essa testimonia come poche altre intuizioni metaforiche. Se ne ricaverebbe la prova che l’espressione le corde dell’anima è stata adottata e coltivata da innumerevoli protagonisti della cultura d’ogni tempo e d’ogni dove, benché sulla scorta di differenti concezioni dell’anima e di diverse ipotesi organologiche sulla realtà delle sue corde. Infatti, se ne trovano tracce recenti, tra gli altri, in Croce e De Amicis, in Gogol e Kandinskij, in von Hoffmannsthal e Beerbohm: sono tracce che affondano le loro remote radici nel robusto sostrato dell’esperienza culturale cristiana (testimoniato, ad esempio, dal capitolo CXLVII del Dialogo di Santa Caterina da Siena) e che, in modo evidente, anche Benedetto XVI ha richiamato con paterna dolcezza nel rispondere a una signora di Busto Arsizio che gli chiedeva dove fosse l’anima di suo figlio in coma: “Certamente l’anima è ancora presente nel corpo. La situazione, forse, è come quella di una chitarra le cui corde sono spezzate, così non si possono suonare. Così anche lo strumento del corpo è fragile, è vulnerabile, e l’anima non può suonare, per così dire, ma rimane presente”.
All’inizio di giugno, Le Corde dell’Anima hanno fatto sentire la loro voce in quel di Cremona, nella cornice della seconda edizione del Festival omonimo, organizzato da Anna Folli & Friends con intelligenza, coraggio e fantasia, nonché con rinnovato e notevolissimo successo: come recita il programma, “un intreccio di musica e letteratura, di parole e di note: un weekend fra incontri e concerti, reading, spettacoli e laboratori. Tre giorni per addentrarsi nei palazzi, nei caffè storici, nelle botteghe di liuteria, nei chiostri e nelle piazze di una città nota in tutto il mondo per la sua grande tradizione musicale e la storica Scuola di Liuteria”.



Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare alla sua realizzazione, pizzicando le corde dell’anima di (leggi più prosaicamente: conversando con) due autrici di lingua inglese – l’indiana Namita Devidayal e l’inglese Beatrice Colin – la cui ispirazione creativa, riflessione musico-letteraria e scrittura testuale hanno saputo offrire agli spettatori del Festival una declinazione dei suoi obiettivi caratterizzata da uno spessore (antropologicamente e culturalmente) internazionale ed interculturale.
Nel romanzo La stanza della musica (2007; Neri Pozza, 2009), infatti, Devidayal colloca la musica tradizionale indiana in uno spazio mentale privilegiato e le attribuisce una straordinaria capacità coesiva, in grado di armonizzare dimensioni narrative spesso considerate (velleitariamente) autonome e autoreferenziali quali la storia personale, la narrazione comunitaria, il racconto mitico e l’affabulazione dell’uomo sulla natura. In quell’universo domestico “dove tutto si traduceva in una metafora musicale”, Dondhutai, la maestra di canto e di tanpura, insegnava alla piccola Namita – e continuerà ad insegnarle una volta adulta – che “esseri umani, uccelli e animali apprezzano le melodie […] perché sono fatti tutti della stessa argilla” e che “la nostra musica ha origini celesti: chi si addentra nei suoi meandri e beve le sue note finisce per innalzarsi di qualche centimetro sopra l’universo dei mortali”.
La grammatica della lettura che Devidayal impone ai suoi lettori è assai esigente e mai scontata. La musica non è solo il tema o il contenuto de La stanza della musica: ne è – per così dire – la “sostanza vitale” in un costante dialogo interculturale con l’esperienza musicale e culturale dell’Occidente (come lei stessa ha dimostrato eseguendo due brevi raga e accompagnandosi con il suo tampura elettronico). A partire dalle parole di Ustad Vilayat Khan, celebre maestro di sitar (1928-2004), che inaugurano la versione italiana (e che invece aprono il Prologo nell’edizione originale) e che lasciano intravedere come traguardo dell’esperienza musicale indiana gli scenari antropologici di una “totalità sinestetica” (udito + vista) solo fuggevolmente sperimentata dalla sapienza musicale occidentale: “Un raga andrebbe eseguito in modo tale che nel giro di pochi minuti tanto l’interprete quanto il pubblico siano in grado di visualizzarlo di fronte a sé”. Nella scrittura di Devidayal, il respiro della musica come “sostanza vitale” non si percepisce solo nei dettagli musico-letterari: anzi, ne plasma il pensiero letterario e le sue macrostrutture testuali, come risulta particolarmente evidente nel suo secondo romanzo Dolceamaro a Bombay (2010; Neri Pozza, 2011), che, pur percorrendo tematiche non musicali, non riesce tuttavia a rinunciare al contributo strutturale di una ritmica narrativa bipartita, con una prima parte modellata su una circolarità di matrice orientale ed una seconda gestita secondo un andamento lineare di evidente ispirazione occidentale.



Anche  l’incontro con Beatrice Colin, autrice londinese che risiede a Glasgow, è stato per chi scrive illuminante: certo, lo sarebbe comunque stato in sé, ma lo è diventato ancor di più per l’accostamento di queste nuove corde dell’anima con quelle riecheggiate in precedenza nel colloquio con Namita Devidayal. Per Colin, infatti, la sua attività di narratrice può essere descritta in modo stricto sensu musico-letterario: “se io stessi scrivendo musica, avrei solo la tonalità – fa minore o Sol maggiore – e non la melodia”. Metafora davvero intrigante, questa, che ricorre a una competenza tecnica (non a una esperienza esecutiva, come nel caso della Devidayal) per suggerire che, nei primi passi della stesura di un romanzo, la scrittrice inglese ricerca – se mi si concede questa audacia musico-letteraria – una cornice compositiva, un repertorio di opportunità sonore e di relazioni gerarchicamente organizzate (la tonalità) e non il profilo individuale di un’irripetibile identità sonora (la melodia).
Verrebbe da dire che si tratta di un prospettiva musico-letteraria d’impronta inguaribilmente occidentale e tale affermazione è facilmente confermata da una lettura attenta del suo avvincente romanzo New York 1916 (2010; Neri Pozza, 2011). Tuttavia, benché in modo diverso dalle arcane magie sonore di Bombay, anche nella cornice narrativa della Grande Mela durante il decennio precedente a quello del Wall Street Crash e tra le scintillanti sonorità della Tin Pan Alley (il “viale dei pianoforti da quattro soldi” che ospitava gli editori di quella che oggi qualcuno definirebbe spregiativamente “musica di consumo”), la musica non svolge soltanto un ruolo tematico, ma si fa – come nella scrittura della Devidayal – “sostanza vitale” e, in presenza o in assenza, dà forma e sostanza all’intreccio tra le vicende del protagonista Monroe Simonov e quelle del ristretto ma variegato gruppo dei principali deuteragonisti Inez Kennedy, Anna Denisova, Ivory Price, Edward Mackenzie – nessuno di loro comodamente riducibile allo stereotipo che i loro nomi paiono suggerire: Monroe, in certa misura modellato sulla silhouette biografico-musicale di George Gershwin (che è riecheggiato a Cremona grazie al duo flauto-pianoforte di Raffaele Trevisani e Paola Girardi) e sospeso sul filo di una fascinosa evoluzione da song-plugger e song-writer; ciascuno degli altri, invece, impregnato di una sua peculiare “sostanza musicale”, che culmina nella geniale identità musico-letteraria di Edward, in equilibrio instabile come il protagonista, ma questa volta tra Mozart e le trascinanti meraviglie del jazz: “più tardi, Monroe cercò di ricostruire l’esatta collisione tra note e melodia, ma non ne fu capace. Riconobbe la musica – era una sonata per pianoforte di Mozart – ma mentre la sinistra (di Edward) batteva il ritmo, dapprima in un registro di basso per poi scorrere sul do centrale e ancora più su, la destra entrava e usciva dalla struttura del brano, ricavando nuovi spunti dalle armonie precedenti”.