I tasselli sembrano davvero tornare tutti: un quadro appartenuto al più grande committente di Caravaggio, il cardinale Vincenzo Giustiniani, chiaramente riferito al maestro lombardo nell’inventario della collezione del 1638, quindi passato a un erede romano il cui nome compare ancora sul retro della tela oggi rintracciata in una collezione privata spagnola. È la “bella” storia del Sant’Agostino pubblicato in prima pagina, dopo un annuncio che aveva tenuto tutti per mesi sulle corde, sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore del 12 giugno, dall’autrice della scoperta Silvia Danesi Squarzina.
Dunque dopo che il centenario del 2010 aveva portato a tante improbabili attribuzioni di nuovi Caravaggio, eccone finalmente uno che è difficile mettere in discussione. Un Caravaggio da prendere a occhi chiusi, verrebbe da dire, tanto lapalissiani appaiono i documenti che lo riguardano.
Solo un “documento” appare poco convincente, ed è il più importante: cioè il quadro stesso. Così settimana scorsa due conoscitori di opposta tendenza hanno smantellato quell’attribuzione, a forza di ragionamenti che non hanno meno forza dei documenti. Vittorio Sgarbi (sul Giornale) e Tomaso Montanari (sul Fatto Quotidiano) sono stati accusati di avere parlato senza aver visto il quadro dal vero, bensì solo attraverso le mediocri riproduzioni apparse sulla carta rosata del Sole. Ma i loro dubbi appaiono ineccepibili, specie se si fa il paragone con l’opera di cui questo Sant’Agostino dovrebbe essere il pendant: e cioè il San Gerolamo, oggi conservato al Santuario di Montserrat, ma pure lui proveniente dalla collezione Giustiniani: un quadro “quintessenzialmente caravaggesco”, come lo definisce con efficacia Montanari. Sono due immagini che non possono essere state pensate dallo stesso cervello: il Sant’Agostino è svagato, traballante e annacquato in una mess’in scena volonterosa ma affastellata. Invece il San Gerolamo ha tutta la fulminante essenzialità e drasticità che fa di Caravaggio un genio.
Naturalmente c’è tempo per sguardi più approfonditi e di sentenze più ragionate. Tuttavia questa vicenda una cosa la insegna: che l’opera è il primo documento con il quale ci si deve confrontare. Mentre oggi la critica sembra cercare quasi una protezione dal rischio di questo confronto, attraverso l’inappellabilità di prove scientifiche o di documenti che dovrebbero far quadrare tutto. Come ha scritto Cristina Terzaghi, una delle maggiori conoscitrici di Caravaggio, siano di fronte a “una sorta di abdicazione della storia dell’arte alla ‘gaia’ scienza”.
In gioco non c’è solo la pretesa di attribuire con sicurezza matematica un quadro a Caravaggio, che a molti non sembra affatto Caravaggio. In gioco c’è la capacità di guardare un’opera, di leggerla in profondità, di capirne i valori. In ultima analisi di “farsene” toccare. C’è quasi una censura dell’occhio non solo come strumento di conoscenza essenziale per ogni conoscitore, ma come “finestra” che determina un rapporto con l’opera. Che costringe a un confronto, in cui si gioca anche la soggettività inevitabile di chi guarda.
Dopo di che ben vengano tutti i documenti e i referti scientifici. Ma il dna di un’opera che abbia anche solo qualche grammo di poesia non sarà mai dato dalla loro somma. E quel dna, sino a prova contraria, è la cosa che più interessa.
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