“Elena era una persona infinitamente sincera,  infinitamente appassionata, talvolta eccedeva proprio per la passione che metteva in tutto, ma era sempre assolutamente onesta e responsabile. Persone così ce ne sono pochissime. Certo, tutti noi la ricorderemo, e non solo quelli che la conoscevano personalmente: saranno in tantissimi a ricordarla. Ha il suo posto nella storia della Russia, della vita della società russa, questo è certo. Ma quello che ci mancherà più di tutto è questa sua sincerità, questa passione, questa sua fede nella giustizia”.



Così la ricorda all’indomani della sua morte Arsenij Roginskij, presidente dell’associazione  Memorial, uno degli ultimi frutti della battaglia di Andrej Sacharov e di sua moglie Elena Bonner. L’accademico Andrej Sacharov aveva partecipato alla fondazione, nel gennaio 1989, di questa prima espressione della società civile russa – dedicata al ristabilimento della memoria delle vittime della repressione – e ne era divenuto presidente. Ma Gorbacëv non vedeva di buon occhio l’iniziativa. Esiste un’istantanea del funerale di Sacharov, il 18 dicembre dello stesso anno, in cui la Bonner squadra Gorbacëv perentoriamente, con un’espressione di dignitoso e vibrante rimprovero, e il segretario generale china il capo, quasi ad assentire alla richiesta che passava in quello sguardo: dare il via libera a Memorial. In quello sguardo, in quell’atteggiamento c’è tutta Elena Bonner, tanto energica e passionale quanto Andrej Sacharov era schivo e riservato, sebbene fossero accomunati dallo stesso giudizio e dalla stessa decisione a “vivere senza menzogna”.



La Bonner (aveva sempre preferito farsi chiamare così, e in generale mordeva il freno rispetto al ruolo di “moglie di Sacharov” che si sentiva attribuire, pur essendo stata dal 1970 inseparabile compagna di vita e di battaglie del grande fisico, premio Nobel per la pace nel 1975), ha vissuto l’iter di molte persone della sua generazione. La sua è una famiglia comunista – il padre era un autorevole membro del Komintern – che come tante viene distrutta dalle purghe del ‘37: Georgij Alikanov viene fucilato e la moglie condannata a otto anni di lager (in realtà avrebbe trascorso quasi vent’anni tra prigioni, campi di lavoro e deportazione).



Ma Elena conserva una forte idealità, serve nonostante tutto il suo Paese, prima come infermiera negli anni di guerra, e poi come medico, militando addirittura nelle file del Pcus nella speranza che il nuovo vento della destalinizzazione chrusceviana portasse un rinnovamento.

L’incontro nel 1970 con Andrej Sacharov segna una svolta nella sua vita e nel suo impegno civile. Il celebre fisico nucleare, padre della bomba all’idrogeno, aveva contestato da anni l’uso bellico delle bombe atomiche che da scienziato aveva contribuito a realizzare. Anzi, aveva messo al servizio della società civile il proprio prestigio scientifico, costituendo il primo Comitato per i diritti civili e prendendo le difese dei dissidenti e dei perseguitati politici. Una decisione che avrebbe pagato a caro prezzo, con l’emarginazione e poi nel 1980 – per le sue proteste contro l’invasione dell’Afghanistan – con l’esilio nella città chiusa di Gor’kij.

In tutti questi anni Elena Bonner lotta accanto al marito (si sposano nel 1972), facendogli da portavoce e lavorando indefessamente nel movimento per i diritti umani. Non meno battaglieri e travagliati saranno gli ultimi anni, quando Sacharov nel 1986 viene riabilitato e successivamente eletto in parlamento, dove si trova a sostenere una lotta impari e pressoché solitaria contro l’establishment.

Dimitrij Sacharov, in un’intervista rilasciata negli anni 70, aveva affermato di combattere non nella speranza di ottenere un risultato – quello sembrava escluso – ma semplicemente nel desiderio di conservare un volto umano, di restare fedele alla dignità che un essere umano deve avere. È forse questa la lezione più profonda della generazione dei dissidenti a cui appartiene Elena Bonner: un’onestà che non è correttezza politica o coerenza etica (perfino nel linguaggio ufficiale dei necrologi nessuno ha potuto fare a meno di ricordare i suoi eccessi, il suo caratteraccio), e neppure una nuova ideologia dei diritti umani. È piuttosto una disarmante sincerità, addirittura la vulnerabilità di chi non ha termini di paragone nel giudizio se non le facce degli amici, della gente per strada, il volto umano che ciascuno ritrova in fondo al proprio cuore.